Venezia 98-99....che salvezza

Laguna tutt’intorno. Non sembra uno stadio visto dall’alto, ma una di quelle barchette di carta destinate a disciogliersi per la forza distruttiva dell’acqua. Il “Pierluigi Penzo” di Venezia, invece, è uno stadio a tutti gli effetti: e da qualche mese è vestito nuovamente col vestito buono della serie A. E’ il 14 marzo del 1999 e i padroni di casa ospitano la Fiorentina di Batistuta e Trapattoni, Rui Costa e Toldo, Cecchi Gori . I viola sono in lotta per il titolo, e per loro, dopo alcuni risultati negativi, questa è la partita decisiva. O la va o la spacca. Torna in campo Batistuta dopo un lungo infortunio. Sulla ruota della partita escono il diciotto, il quarantadue, il quarantacinque e il novantuno. E se l’ultimo di questa quaterna, in una normale estrazione del lotto farebbe parecchia fatica ad uscire, poco male. Il numero del minuto del gol non si può scegliere, ed ai veneziani importa il giusto: sono i gol di Recoba (tre) e dell’onesto dottor Miceli Salvatore. Il “Penzo” riscuote la vincita, si prende lo scalpo viola con un roboante 4-1 e innalza alla gloria il suo nuovo doge, un uruguagio con la faccia da cinese e il sinistro di un semidio, in un miscuglio di razze e natura divina da far invidia a Zeus, a tutto l’Olimpo e a Moratti Massimo da Bosco Chiesanuova, Milano.bVenezia è la città degli innamorati e delle gondole. In un mix di fascino e turismo, da sempre è meta di coppiette che inaugurano la loro vita matrimoniale condividendo le loro prime ore di libero amore con un gondoliere che fa passare il legno sotto i ponti di una città magica. Il rapporto tra la città e il calcio non è tanto diverso dalla storia di tanti di quei matrimoni iniziati con una prima notte da quelle parti: tanta routine e qualche picco improvviso d’amore. Il picco del Venezia risale ai primi anni quaranta: sotto la presidenza di Arnaldo Bennati, la squadra neroverde arriva in serie A nel 1939, ed è una prima volta assoluta. In campo ci sono due signori destinati ad un radioso avvenire, e che di nome fanno Valentino Mazzola ed Ezio Loik: la squadra giganteggia, specie al “Penzo”, ed in due anni prima vince la Coppa Italia, e poi sfiora lo scudetto, perdendo il treno solo alla ventitreesima, con la sconfitta interna con la Roma poi Campione d’Italia. I neroverdi ci credono fino all’ultimo, tanto da decidere il campionato con una vittoria interna col Torino, non ancora “grande” come la memoria e la nostalgia ci impone di ricordarlo, ma prontissimo a diventarlo: in occasione di quella partita, il presidente granata Novo viola lo spogliatoio neroverde in festa consegnando a Bennati un’offerta alla don Vito Corleone. Irrifiutabile. Bennati prende alla grande, e per un milione di lire cede i suoi astri lucenti Loik e Mazzola, fa grande il Torino e avvia la decadenza dei lagunari. Il tempo che la guerra finisca, ed è di nuovo serie B. Fine delle trasmissioni, anzi no. Due rapide e dolorose comparsate in A (1961/62 e 1966/67) fanno da cornice ad anni bui, in attesa che l’amore possa di nuovo esplodere.Poi, come in ogni storia d’amore che si rispetti, ecco l’amante, solo che stavolta ha l’effetto contrario: non distrugge il rapporto, ma lo rianima e lo ricrea, dall’alto di una caratteristica e velocissima parlata e di un gruzzolo di quattrini niente male. Come ogni amante, fa parlare di sé. Ma non è solo il ruolo metaforico ad influire, in questo caso. Ci sono persone sulla faccia della terra destinate a far parlare: sé stessi, gli altri di sé stessi, tutti male o tutti bene. Ma tanto. A volte anche troppo. Il portabandiera di questo club di simpatici esageratori di parole potrebbe tranquillamente essere l’amante di cui sopra, Maurizio Zamparini, il signor Mandi, Emmezeta, e, dal 1986, signorVenezia, inteso come calcio. Arriva, compra il Venezia, compra il Mestre, li fonde, e quasi scatena la guerra civil-lagunare. Neroverdi veneziani classici, più arancioni mestrini: in un bisticcio cromatico, i nuovi cavalieri del Venezia puntano a risalire le vette del calcio. Nel 1991, dopo cinque anni e due promozioni, tra squilli di fanfare e bulimia di allenatori, caratteristiche peculiari del pres, la società lagunare è di nuovo in serie B. In panchina c‘è un enfant prodige: si chiama Alberto Zaccheroni. Il tempo di salire in B, e salta. Stessa sorte per tutti i suoi successori. In rapida successione: Rino Marchesi, Pietro Maroso,  Gianpietro Ventura, Gigi Maifredi, Gabriele Geretto, Gianni Rossi, Giuseppe Marchioro, Gianfranco Bellotto, Franco Fontana e Walter De Vecchi. E siamo “già” al 1996: cinque anni, per due all’anno, esattamente dieci. Dieci allenatori per sei stagioni di vivacchio in serie B, con qualche picco (promozione sfiorata nel 1994) e tanta aurea mediocrità. All’alba del 1996/97 arriva l’undicesimo: si chiama Walter Alfredo Novellino. Ha vinto lo scudetto col Milan diciotto anni prima, era un fine dicitore della fascia, tecnico, geniale e un po’ anarchico è avellinese di nascita ma perugino d’adozione ed ha appena fatto i miracoli al Ravenna. Riuscirà il nostro eroe a salvarsi dal malvagio dottor Emmezeta, mangiallenatori per eccellenza? Non solo riesce. Vince. Osa arrivare dove nessuno ha mai pensato. Sessantaquattro punti in trentotto partite, secondo posto e il signor Stefan Schwoch da Bolzano, idolo incontrastato del “Penzo”, messo sul gradino più basso del podio dei cannonieri con diciassette reti. La serie A, a Venezia, non è più un’utopia. Zamparini presidente, Marotta dg, Di Marzio ds e Schwoch goleador: spina dorsale di alto livello, e dopo trent’anni tondi tondi il vecchio Penzo è pronto a ricevere i lungagnoni da poster della serie A. I nomi fanno girare la testa: Ronaldo, Baggio, Del Piero, Batistuta, Inzaghi e cento altri campioni nella tana dei carneadi, nella laguna dei piccoli sconosciuti del pallone. I tifosi sperano che ai vari Iachini, Pedone, Luppi, Miceli e Pavan non venga il mal di gondola.“Gioco a zona e non cambio la mia filosofia neanche in Serie A”. Walter Alfredo Novellino, estate 1998. I puristi del calcio quasi inorridiscono per l’irriverenza dell’ex aletta tutto pepe e serpentine di rossonera memoria, che dopo un’estate ricca di sogni e speranze si ritrova tra le mani una squadretta niente male. In porta c’è Massimo Taibi, enfant prodige finito troppo presto nel limbo degli incompiuti dopo le sciagure milaniste e desideroso di rimettersi in carreggiata. Difesa, rigorosamente a quattro, che si schiera così: Carnasciali, Pavan, Luppi, Dal Canto. Pari numero i centrocampisti: De Franceschi, Iachini, Volpi, Pedone. In avanti, il testone rapato e la voglia di riscatto di Pippo Maniero e la chioma ribelle di Stefan Schwoch. In panchina, Brioschi, Valtolina, Marangon, Miceli e le incognite straniere Bilica, Tacio, Tuta e Zeigbo. Insomma, niente di cui lamentarsi: zero stelle e numero grosso di mestieranti del pallone, pronti a sudare per l’obiettivo-salvezza. Inizio davvero niente male: Bari, Parma, Roma, Milan e Perugia. Cinque gare, uno 0-0 coi gialloblu, quattro sconfitte e zero gol fatti. La prima rete porta la firma di Schwoch, alla sesta: 1-1 al “Friuli” di Udine e penultimo posto in classifica. Poi, ancora scoppole: Bologna in casa e Fiorentina fuori, sino alla data delle date. 15 novembre 1998. Al “Penzo” sale la Lazio miliardaria di Eriksson, squadrone d’assalto e velleità da scudetto. Al quinto, il signor Tuta, attaccante brasilano dal nome di capo sportivo, fa 1-0. Non può essere vero. Infatti: mezz’ora abbondante dopo, Francesco Pedone da Milano, trascorsi con Barletta, Como, Bari e Reggiana, butta dentro il pallone del 2-0. Finisce così: è un piccolo sogno divenuto realtà, ma la strada è ancora in salita, ed è un eufemismo. Cinque punti in nove gare sono una miseria, ma il primo tabù è rotto. Emmezeta, dall’alto del suo essere vulcanico (gli eufemismi, come potete ben vedere, si sprecano), sorprende tutti: fiducia al Novellino, si va avanti. Un punto tra Salernitana e Sampdoria, e poi giù il secondo tabù. Stadio Sant’Elia, 6 dicembre del 1998: Francesco Zanoncelli, libero del Cagliari di Ventura, si traveste da Babbo Natale con anticipo largo e regali, fa un autogol e mette sul piatto di Volpi & co. la prima storica vittoria esterna del campionato. Nelle due gare successive, due 0-0 di diverso peso specifico: quello interno col Piacenza può apparire ed in fondo è una grossa occasione perduta, quello di Vicenza sa di mezzo miracolo. Stop. Si chiude su delle facce, attaccate alle maglie nere, verdi ed arancioni, che sbuffano per una salvezza da conquistare sul campo, ma che adesso non è proprio impossibile. Natale è alle porte, e solitamente, in questi casi, Babbo Natale recita da protagonista, e la Befana fa la parte di quella cattiva, che ti regala le cose ma ti rigetta anche nel mondo reale dopo i gozzovigli di cibo e risate tipici delle feste. Stavolta, però, le parti si invertono. La Befana, a Venezia come in milioni di altri posti, ha fatto il suo dovere. Nella città lagunare l’ha fatto con qualche giorno di ritardo, quando Babbo Natale aveva già partorito l’idea ed era tornato nella sua pensione dorata ma come dice il detto, “Basta il pensiero”. La signora vecchia, brutta e con la scopa ha infatti lasciato in regalo un piccolo ragazzo sudamericano. È nato in Uruguay, per la precisione a Montevideo. Lo chiamano “El Chino”, e non a caso: più che latinoamericano, il suo volto sembra uscito da un film di Bruce Lee su Kung-Fu o diavolerie simili. Il suo cartellino appartiene all’Internazionale Football Club di Milano, che sotto la targa della sede potrebbe tranquillamente apporre la scritta “zoo di fantasisti, numeri dieci e mezzepunte in libertà vigilata”. C’è Baggio, c’è Pirlo, c’è Djorkaeff. Poi, e solo poi, c’è Recoba. L’anno prima, in otto presenze, tre gol. Detto così, suona di mezzo fallimento. Chi se le ricorda, quelle tre perle, sa invece che parlare di fallimento è un’eresia: alla prima delle prime, doppietta dalla trequarti con il Brescia. Alla fine dell’andata, gol da centrocampo con l’Empoli. Insomma, un mago dal sinistro di pietra ma incantato allo stesso tempo. Il problema è che Simoni lo vede adatto alla causa come un vegetariano guarda una costoletta di maiale. Insomma, dopo la prima stagione, nella seconda la musica non cambia, anzi diminuisce di volume: zero feeling e una presenza. Maurizio Zamparini e il suo fido braccio destro Marotta fiutano l’affare, Novellino l’avalla, ed ecco sbarcare Il Chino sulle sponde della laguna. Per far spazio a Recoba, viene sacrificato l’eroe della promozione: Schwoch firma per il Napoli, per far sognare e vincere un’altra piazza disabituata, seppur da meno tempo, alle grandi felicità. Il Venezia riparte da qui, dalla sua nuova coppia d’attacco e dalla volontà di confermare il buon momento di gioco e risultati. L’esordio del “Chino” è datato 17 gennaio: sette giorni prima, alla ripresa delle ostilità per i neroverdi, (che si sono visti rinviare per nebbia la gara della Befana contro l’Empoli), l’Inter ha fatto l’Inter e a San Siro ha caricato di ben sei pallettoni la squadra di Novellino, capace di rispondere con sole due reti. Il 2-6 patito al “Meazza” non sembra essere il miglior viatico per i lagunari: al “Penzo” c‘è una Juve attardata dalla vetta, ma pur sempre vestita, e nobilmente, di bianconero. Alla fine, il divario non si avverte nel risultato: 1-1 e primi minuti messi nelle gambe dal Chino, sostituito da Marangon quando il cronometro segna il numero cinquantacinque. Tre giorni dopo, il recupero con l’Empoli, e prima festa veneziana del 1999, in attesa del carnevale di febbraio: i lagunari rispondono ai due rigori del primo tempo di Di Napoli con tre reti, ad opera di Fabian Valtolina, onesto gregario, e di un doppio Maniero, vice Superpippo della Serie A per ordine gerarchico dopo Inzaghi.Poi venne il giorno del fattaccio: è il 24 di gennaio. Il Venezia, per i motivi di cui sopra, riceve ancora al “Penzo”, e gli ospiti sono i galletti biancorossi del Bari. 1-0, Maniero. 1-1, De Ascentis. E poi, minuto numero novanta: un ragazzo di colore che come apelido ha scelto Tuta, dai tratti cinematograficamente comuni per il paese italico (imbaraz zante la somiglianza con Aristoteles, il miglior centravanti brasiliano che Lino Banfi abbia mai allenato...), getta in rete il pallone del 2-1. Invece che festeggiarlo e festeggiare, i compagni hanno musi lunghi come quelli di cani bastonati. Non tristi, ma terribilmente arrabbiati sono gli avversari baresi, che nel tunnel del ritorno negli spogliatoi quasi fanno una carneficina con i lagunari. Insomma, c’è puzza di combine. L’inchiesta avviata dalla giustizia sportiva non spiega un bel nulla, salva questi baldi “ragazzi alla pari” da guai peggiori e getta nel dimenticatoio una brutta storia. I tre punti portano per la prima volta il Venezia fuori dalla zona retrocessione. La squadra capisce che non è un punto di arrivo, ma di partenza: adesso c’è un signore, lì davanti, che crea e ricama come mai si era visto da queste parti. Il primo ad approfittarne è Pippo Maniero: a Parma, i padroni di casa gialloblu solo nel finale riescono a pareggiare con Chiesa la doppietta dell’attaccante, mentre la Roma di Zeman ne busca tre al Penzo, che festeggia, il giorno 7 febbraio, la prima rete lagunare di Recoba. Il conto lo chiudono ancora l’indemoniato Maniero ed il carneade Ballarin. La sconfitta di misura (1-2) patita a Milano con i lanciati rossoneri di Zaccheroni è solo un incidente di percorso, ripagato una settimana dopo con la stessa moneta al Perugia: a segno ancora i soliti noti, Recoba e Maniero. Il Chino è praticamente indomabile: serpentine ubriacanti, calci da fermo da favola e finalmente anche gol decisivi: suo il rigore che a sette dal termine consente ai ragazzi di Novellino in arte Monzon di battere l’Udinese e di portarsi a +6 sulla zona retrocessione. Altro piccolo infortunio intermedio la sconfitta del 7 marzo patita a Bologna, ancora per 2-1; perché poi torniamo al fotogramma iniziale, chiudiamo il flashback e raccontiamo una storia che sa di sogno. Il 4-1 alla Fiorentina consacra alla serie A la stella di Recoba, ragazzo da tripletta, uomo-copertina e talento da vetrina del campionato. Moratti, vedendo agonizzare la sua Inter, si mangia le mani: questo campione dal sinistro di fata avrebbe fatto parecchio comodo, ed invece è a fare le fortune di un Venezia che passa il resto della stagione tra il sollazzo e l’attenzione a non ricadere nelle sabbie mobili. Verranno altri gol firmati Recoba, a cominciare da quello decisivo segnato al Cagliari alla ventinovesima. Verrà la grande soddisfazione, alla trentatreesima, di suggellare la salvezza matematica con un sontuoso 3-1 proprio all’Inter. Verrà una salvezza comoda alla fine, specie se si pensa alle difficoltà iniziali di una squadra poco abituata al grande palcoscenico e che solo con l’arrivo di un piccolo genio inespresso riuscirà ad esprimere le sue ottime qualità. Verrà, infine, l’ultimo gol, al novantesimo dell’ultima giornata, ancora di Recoba: il secondo gol veneziano nell’indolore 2-3 patito dalla Juventus a Torino è il modo migliore e più giusto di chiudere il sipario su una stagione che più bella nessuno poteva immaginare nella città delle gondole. Grazie a Zamparini, presidente a dir poco vulcanico ma innamorato intenditore dall’occhio lungo, capace di reprimere il suo istinto di killer di allenatori ed aspettare il “dai e dai” di venezian proverbio, dando fiducia a Novellino, regalandogli Recoba e salvando un Venezia considerato spacciato dai più. Grazie a Marotta, dirigente scaltro che col tempo coglierà i sontuosi frutti di passione e conoscenze rare nel mondo dirigenziale calcistico. Grazie a Novellino, allenatore che per parecchie stagioni a venire non sbaglierà mai un colpo. E grazie a lui, il “Chino”, Alvaro Recoba, giocatore impareggiabile ed indiscusso ed indimenticato idolo di una tifoseria che con lui ha vissuto momenti da favola incorniciati con traiettorie disegnate da un sinistro intonato come l’ugola di un grande tenore.

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