Il Cagliari di Scopigno non è stato un exploit imprevisto, ma il frutto di un amalgama tra una società, una squadra, un gruppo di tecnici e una tifoseria. Con il fattore umano sempre in primo piano, l'allenatore filosofo realizzò così il suo Capolavoro Sono trascorsi più di quarant'anni e sembra ieri. Sembra proprio di riviverlo quel pomeriggio del 12 aprile 1970, quando il Cagliari batteva il Bari nell'Amsicora in delirio, autori dei gol del successo Riva e Gori. La sera, in un ristorante del centro città, i neoscudettati rossoblù sfogavano la loro gioia a torte in faccia. Così si festeggiava lo scudetto del Cagliari, qualcosa di veramente clamoroso, dal sapore particolare per una società, una squadra, un gruppo di tecnici e una tifoseria non assuefatti a simili prodigi.Diciamo pure una visione onirica. Ma se consideriamo che il Cagliari ha interpretato al meglio il compito di onorare quell'anno il suo mezzo secolo di vita, se rapportiamo il suo sforzo, i suoi sacrifici, la sua prorompente volontà al disegno perseguito nel corso di un lustro - dal suo passaggio dalla serie B alla A - ebbene, la conclusione pare conseguente: il Cagliari si era prefisso di distinguersi tra le elette, non soltanto di vivacchiare puntando alla salvezza anno per anno. Così dal presidente Rocca agli allenatori che si erano susseguiti da Silvestri a Scopigno, da questi a Puricelli infine ancora a lui stesso, al maestro «filosofo» dall'acume tattico straordinario, tutti insieme avevano posto le basi per creare un Cagliari degno di ammirazione da parte di chiunque, comprese le cosiddette grandi del calcio italiano. Con simile intento, dirigenti e tecnici si erano dati da fare per allestire una rosa fra titolari e primi rincalzi da riuscire costantemente competitiva. E difatti, fin dal torneo 1968-69 il Cagliari si era impegnato in uno sprint con la vittoriosa Fiorentina finendole alle spalle, ma occupando assieme al Milan una piazza d'onore d'alto prestigio. Un'avvisaglia, dunque, per il futuro e infatti l'ossatura della squadra risultava solidissima; proprio in quella stagione la società presentava due nuovi acquisti che si sarebbero rivelati in seguito importantissimi: il portiere Albertosi e il fantasista Brugnera. Essi si aggiungevano a elementi di sicura efficienza che nei cinque anni dalla B alla A si erano susseguiti e si erano cementati in una serie di campionati degnissimi: il libero Cera di classica impostazione, il roccioso stopper Niccolai, l'interno di regia Greatti, il trequartista Nené e sopra gli altri Gigi Riva, bomber irresistibile. Nella stagione '69-70, dietro suggerimento di Manlio Scopigno, il Cagliari operava uno scambio con l'Inter così inatteso da suscitare non poco scalpore: cedeva infatti Boninsegna e acquistava la coppia Domenghini-Gori.
Questi inserimenti producevano un'autentica simbiosi tra i reparti, ponevano Gigi Riva nella condizione di operare da protagonista in senso assoluto per l'intelligente e altruistica collaborazione di Gori e per la meritoria azione di Domenghini, instancabile sulla fascia destra. Il resto si conosceva: centrocampo e difesa inscalfibili. Con alle spalle una società modello, sospinta da un tifo che si può definire senza tema di smentita regionalistico, il Cagliari recitava allegramente con un gioco scoppiettante e assieme attento ai rigorosi canoni del «prima non prenderle». I risultati documentano la perfetta interpretazione dei meccanismi tecnico-tattici di questa mirabile formazione: Albertosi subiva soltanto 11 reti, Gigi Riva ne realizzava 21 conseguendo il suo terzo trionfo di cannoniere scelto, il secondo consecutivo. Indubbiamente l'alfiere di quel Cagliari che aveva conquistato lo scudetto non poteva che essere considerato lui, l'indimenticabile goleador che a Cagliari aveva deciso di crearsi una sua vita senza rimpianti per il Continente. Tanto da rifiutare in seguito le proposte sontuose di Inter, Milan, Juventus e quant'altre: quasi un suggello a consacrare quella memorabile stagione. Le battute di Scopigno e un bel gruppo di amici «Una notte il tecnico ci sorprese a far baldoria con pane e salame - racconta Cera -. Ci guardò, poi chiese: "Non c'è il vino?"» Un giorno, alla fine di una partita, i giornalisti vollero sapere da lui se il fallo commesso in area da un difensore avversario fosse stato volontario o no. Lui ci pensò su. «Se avessi risposto che era stato volontario e che quindi l'arbitro aveva sbagliato, sarebbe successo un casino. Se avessi risposto che era stato involontario, be', non sarei stato sincero». Allora si rivolse ai giornalisti e disse: «Chiedetelo al pallone». Manlio Scopigno era fatto così: tre parole e via. «In una settimana non mi parlava più di 10 minuti», giura Giuseppe Tomasini, il libero nel Cagliari dello scudetto. Poche parole ma, a seconda dei casi, importanti, pungenti, sarcastiche, decisive, mai banali, mai sprecate. Per esempio: un giornalista voleva sapere perché Brugnera andava sempre in panchina. Ai silenzi di Scopigno, il giornalista incalzava, ripeteva, insisteva. «Alla fine non ne potevo più e gli risposi: "Perché Brugnera ha il culo stretto e così in panchina stiamo tutti più comodi"».«Scopigno mi disse: "Se avessi un altro cognome, saresti già in nazionale"», ricorda Mario Martiradonna. Scopigno è l'unico che non può più raccontare quel Cagliari, quello scudetto, quell'aria. «Si respirava - dice Angelo Domenghini - perché non c'era la pressione di tv, giornalisti e sponsor. Respirare significava anche poter giocare un calcio bello, autentico, semplice ed efficace, divertente. Andare in campo con la testa sgombra voleva dire fiato, forza, probabilmente vincere. Andare in campo con la testa piena voleva dire paura, tensione, probabilmente perdere». Era il Cagliari della libertà. «Ritiri zero - spiega Tomasini -. Scopigno ci diceva: "Lo fanno le squadre che stanno per retrocedere, e poi retrocedono lo stesso. E allora tanto vale non farli"». «Durante il precampionato estivo ad Asiago - ricorda Pierluigi Cera - Scopigno entrò in una stanza dove tre o quattro di noi fumavano come turchi. Nebbia. Non fece una piega. Tirò fuori una sigaretta e ci domandò se per caso desse fastidio». Fumava Albertosi («Io posso - si difendeva - tanto non devo mica correre»), fumava Riva («Che esempio - ammette - anche due pacchetti al giorno»). Era il Cagliari dell'allegria. «Una sera vide uno di noi che alzava il gomito - racconta Adriano Reginato -. Allora chiamò il cameriere: "Vede quel giocatore? Per favore, gli porti un altro bicchiere di vino"».Era il Cagliari della rivincita. «Banditi e pastori, ecco come ci chiamavano quando andavamo a giocare a Milano o a Torino - racconta Riva -. Invece noi vedevamo solo tante facce da emigranti. Venivano dalla Germania, dal Belgio, dalla Svizzera. Erano minatori, camerieri, operai. La loro gioia era la nostra». «Quando si giocava in casa, all'Amsicora - aggiunge Cera - c'era gente che partiva dalle montagne dell'entroterra il sabato notte e la domenica mattina era già fuori dallo stadio ad aspettarci». Era il Cagliari dell'amicizia. «Nenè - sospira Martiradonna - certe volte lo sogno a occhi aperti». «Di quegli anni ricordo soprattutto lo spogliatoio - confida Riva -. Ci volevamo bene. Passa il tempo, e continuiamo a volerci bene». «Vivevamo in foresteria - racconta Giulio Zignoli-. Una decina di scapoli in un appartamento. Ognuno la sua camera, poi un grande soggiorno, bagno e cucina in comune. A mangiare fissi al ristorante, qualche sera ci scappava una spaghettata in casa. E poi la foresteria diventava il ritrovo per tutti prima della partita. A forza di vivere insieme si costruì un bel gruppo e un bel clima. Certo, a volte bisognava prenderla sul ridere. Come quella sera in cui tornai nell' appartamento, entrai in camera e non trovai più il mio letto. L'avevano calato in giardino. Poi però mi aiutarono a riportarlo su». Zignoli era di proprietà del Milan, l'avevano mandato a farsi le ossa in C a Taranto e in B a Bari. «Il primo anno al Cagliari davanti a me c'era Longoni, fortissimo. Il secondo anno partii titolare. Era una difesa di bassotti: io, 1 e 73, superavo addirittura Martiradonna e Cera. Come piedi ero un po' scarso, ma correvo, avevo senso del tempo e stavo attaccato al mio uomo. L'allenatore in campo era Cera: lo chiamavamo "Il Gazzettino Padano" perché parlava sempre. Scopigno invece non parlava mai. In due anni ha detto, a Niccolai e a me, una sola volta, "Mi siete piaciuti". E dire che avevamo perso 1-0 a Palermo. In allenamento si appoggiava al palo di una porta e ci guardava mentre Cera tirava il gruppo». Erano allenamenti sereni. «L'unica cosa che Scopigno pretendeva era la puntualità. Se pioveva, spesso si tornava tutti negli spogliatoi. Un giorno, a Bologna, fuori neve e gelo, ci fece allenare nel corridoio dell'albergo. Non tutti, per carità, solo quelli che in partita dovevano correre di più. "Inutile prendersi un raffreddore o l'influenza", spiegò Scopigno. Aveva ragione lui. Perché adesso, a ripensarci, e a riparlarne, mi sembra ieri, anzi, mi sembra di essere ancora un giocatore». «Di quella stagione non mi è scappato nulla. Tutte e trenta le partite andai regolarmente in panchina. Da destra, nell'ordine: l'allenatore Scopigno, il medico Frongia e io. Solo nell' ultima entrai in campo: a Torino, Torino-Cagliari 0-4, era il 15' del secondo tempo, finì 0-4 e così quel campionato finii imbattuto». Adriano Reginato è stato lo spettatore numero 1 dello scudetto del Cagliari. Carbonera, Treviso, Torino, Vicenza, poi Cagliari, appunto, dov'è rimasto a vivere. «Un gruppo unico, un mosaico perfetto, un gioco imparato a memoria, un'intesa a occhi chiusi. E un allenatore che si è rivelato l'uomo giusto al momento giusto: il segreto di Scopigno è che ci lasciava fare, al massimo parlava con lo sguardo». Qualche volta si spingeva fino alle parole. Come a Lecco, per Lecco-Cagliari: «Campo bagnato, pallone viscido, Martiradonna salvò sulla linea di porta due tiri che mi erano sfuggiti. Nel finale feci due grandi parate, ma ero demoralizzato nonostante la vittoria per 2-0. Il martedì, prima di riprendere gli allenamenti, Scopigno mi rincuorò: ma non lo sapevi che il custode aveva insaponato il pallone?». Davanti a Reginato c'era Albertosi. «Un grande. Non aveva doti straordinarie, ma sapeva stare in porta, e il suo buonumore era contagioso. Io in panchina stavo male, teso, sempre pronto a entrare. Quello scudetto me lo sono sudato così». E anche così: «Ogni giorno, mezz'ora prima e mezz'ora dopo l' allenamento, Riva mi tratteneva in campo e mi bombardava. Di sinistro, al volo, su rigore e su punizione, cercava l'angolo, trovava la potenza. Io facevo da cavia. E quando respingevo corto, correva verso il pallone e sparava in porta. E quando per paura di farmi male mi tiravo via, mi insultava. Se ho le dita mezzo storte, lo devo alle sue "smazzuccate"»
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