Venezia 98-99....che salvezza

Laguna tutt’intorno. Non sembra uno stadio visto dall’alto, ma una di quelle barchette di carta destinate a disciogliersi per la forza distruttiva dell’acqua. Il “Pierluigi Penzo” di Venezia, invece, è uno stadio a tutti gli effetti: e da qualche mese è vestito nuovamente col vestito buono della serie A. E’ il 14 marzo del 1999 e i padroni di casa ospitano la Fiorentina di Batistuta e Trapattoni, Rui Costa e Toldo, Cecchi Gori . I viola sono in lotta per il titolo, e per loro, dopo alcuni risultati negativi, questa è la partita decisiva. O la va o la spacca. Torna in campo Batistuta dopo un lungo infortunio. Sulla ruota della partita escono il diciotto, il quarantadue, il quarantacinque e il novantuno. E se l’ultimo di questa quaterna, in una normale estrazione del lotto farebbe parecchia fatica ad uscire, poco male. Il numero del minuto del gol non si può scegliere, ed ai veneziani importa il giusto: sono i gol di Recoba (tre) e dell’onesto dottor Miceli Salvatore. Il “Penzo” riscuote la vincita, si prende lo scalpo viola con un roboante 4-1 e innalza alla gloria il suo nuovo doge, un uruguagio con la faccia da cinese e il sinistro di un semidio, in un miscuglio di razze e natura divina da far invidia a Zeus, a tutto l’Olimpo e a Moratti Massimo da Bosco Chiesanuova, Milano.bVenezia è la città degli innamorati e delle gondole. In un mix di fascino e turismo, da sempre è meta di coppiette che inaugurano la loro vita matrimoniale condividendo le loro prime ore di libero amore con un gondoliere che fa passare il legno sotto i ponti di una città magica. Il rapporto tra la città e il calcio non è tanto diverso dalla storia di tanti di quei matrimoni iniziati con una prima notte da quelle parti: tanta routine e qualche picco improvviso d’amore. Il picco del Venezia risale ai primi anni quaranta: sotto la presidenza di Arnaldo Bennati, la squadra neroverde arriva in serie A nel 1939, ed è una prima volta assoluta. In campo ci sono due signori destinati ad un radioso avvenire, e che di nome fanno Valentino Mazzola ed Ezio Loik: la squadra giganteggia, specie al “Penzo”, ed in due anni prima vince la Coppa Italia, e poi sfiora lo scudetto, perdendo il treno solo alla ventitreesima, con la sconfitta interna con la Roma poi Campione d’Italia. I neroverdi ci credono fino all’ultimo, tanto da decidere il campionato con una vittoria interna col Torino, non ancora “grande” come la memoria e la nostalgia ci impone di ricordarlo, ma prontissimo a diventarlo: in occasione di quella partita, il presidente granata Novo viola lo spogliatoio neroverde in festa consegnando a Bennati un’offerta alla don Vito Corleone. Irrifiutabile. Bennati prende alla grande, e per un milione di lire cede i suoi astri lucenti Loik e Mazzola, fa grande il Torino e avvia la decadenza dei lagunari. Il tempo che la guerra finisca, ed è di nuovo serie B. Fine delle trasmissioni, anzi no. Due rapide e dolorose comparsate in A (1961/62 e 1966/67) fanno da cornice ad anni bui, in attesa che l’amore possa di nuovo esplodere.Poi, come in ogni storia d’amore che si rispetti, ecco l’amante, solo che stavolta ha l’effetto contrario: non distrugge il rapporto, ma lo rianima e lo ricrea, dall’alto di una caratteristica e velocissima parlata e di un gruzzolo di quattrini niente male. Come ogni amante, fa parlare di sé. Ma non è solo il ruolo metaforico ad influire, in questo caso. Ci sono persone sulla faccia della terra destinate a far parlare: sé stessi, gli altri di sé stessi, tutti male o tutti bene. Ma tanto. A volte anche troppo. Il portabandiera di questo club di simpatici esageratori di parole potrebbe tranquillamente essere l’amante di cui sopra, Maurizio Zamparini, il signor Mandi, Emmezeta, e, dal 1986, signorVenezia, inteso come calcio. Arriva, compra il Venezia, compra il Mestre, li fonde, e quasi scatena la guerra civil-lagunare. Neroverdi veneziani classici, più arancioni mestrini: in un bisticcio cromatico, i nuovi cavalieri del Venezia puntano a risalire le vette del calcio. Nel 1991, dopo cinque anni e due promozioni, tra squilli di fanfare e bulimia di allenatori, caratteristiche peculiari del pres, la società lagunare è di nuovo in serie B. In panchina c‘è un enfant prodige: si chiama Alberto Zaccheroni. Il tempo di salire in B, e salta. Stessa sorte per tutti i suoi successori. In rapida successione: Rino Marchesi, Pietro Maroso,  Gianpietro Ventura, Gigi Maifredi, Gabriele Geretto, Gianni Rossi, Giuseppe Marchioro, Gianfranco Bellotto, Franco Fontana e Walter De Vecchi. E siamo “già” al 1996: cinque anni, per due all’anno, esattamente dieci. Dieci allenatori per sei stagioni di vivacchio in serie B, con qualche picco (promozione sfiorata nel 1994) e tanta aurea mediocrità. All’alba del 1996/97 arriva l’undicesimo: si chiama Walter Alfredo Novellino. Ha vinto lo scudetto col Milan diciotto anni prima, era un fine dicitore della fascia, tecnico, geniale e un po’ anarchico è avellinese di nascita ma perugino d’adozione ed ha appena fatto i miracoli al Ravenna. Riuscirà il nostro eroe a salvarsi dal malvagio dottor Emmezeta, mangiallenatori per eccellenza? Non solo riesce. Vince. Osa arrivare dove nessuno ha mai pensato. Sessantaquattro punti in trentotto partite, secondo posto e il signor Stefan Schwoch da Bolzano, idolo incontrastato del “Penzo”, messo sul gradino più basso del podio dei cannonieri con diciassette reti. La serie A, a Venezia, non è più un’utopia. Zamparini presidente, Marotta dg, Di Marzio ds e Schwoch goleador: spina dorsale di alto livello, e dopo trent’anni tondi tondi il vecchio Penzo è pronto a ricevere i lungagnoni da poster della serie A. I nomi fanno girare la testa: Ronaldo, Baggio, Del Piero, Batistuta, Inzaghi e cento altri campioni nella tana dei carneadi, nella laguna dei piccoli sconosciuti del pallone. I tifosi sperano che ai vari Iachini, Pedone, Luppi, Miceli e Pavan non venga il mal di gondola.“Gioco a zona e non cambio la mia filosofia neanche in Serie A”. Walter Alfredo Novellino, estate 1998. I puristi del calcio quasi inorridiscono per l’irriverenza dell’ex aletta tutto pepe e serpentine di rossonera memoria, che dopo un’estate ricca di sogni e speranze si ritrova tra le mani una squadretta niente male. In porta c’è Massimo Taibi, enfant prodige finito troppo presto nel limbo degli incompiuti dopo le sciagure milaniste e desideroso di rimettersi in carreggiata. Difesa, rigorosamente a quattro, che si schiera così: Carnasciali, Pavan, Luppi, Dal Canto. Pari numero i centrocampisti: De Franceschi, Iachini, Volpi, Pedone. In avanti, il testone rapato e la voglia di riscatto di Pippo Maniero e la chioma ribelle di Stefan Schwoch. In panchina, Brioschi, Valtolina, Marangon, Miceli e le incognite straniere Bilica, Tacio, Tuta e Zeigbo. Insomma, niente di cui lamentarsi: zero stelle e numero grosso di mestieranti del pallone, pronti a sudare per l’obiettivo-salvezza. Inizio davvero niente male: Bari, Parma, Roma, Milan e Perugia. Cinque gare, uno 0-0 coi gialloblu, quattro sconfitte e zero gol fatti. La prima rete porta la firma di Schwoch, alla sesta: 1-1 al “Friuli” di Udine e penultimo posto in classifica. Poi, ancora scoppole: Bologna in casa e Fiorentina fuori, sino alla data delle date. 15 novembre 1998. Al “Penzo” sale la Lazio miliardaria di Eriksson, squadrone d’assalto e velleità da scudetto. Al quinto, il signor Tuta, attaccante brasilano dal nome di capo sportivo, fa 1-0. Non può essere vero. Infatti: mezz’ora abbondante dopo, Francesco Pedone da Milano, trascorsi con Barletta, Como, Bari e Reggiana, butta dentro il pallone del 2-0. Finisce così: è un piccolo sogno divenuto realtà, ma la strada è ancora in salita, ed è un eufemismo. Cinque punti in nove gare sono una miseria, ma il primo tabù è rotto. Emmezeta, dall’alto del suo essere vulcanico (gli eufemismi, come potete ben vedere, si sprecano), sorprende tutti: fiducia al Novellino, si va avanti. Un punto tra Salernitana e Sampdoria, e poi giù il secondo tabù. Stadio Sant’Elia, 6 dicembre del 1998: Francesco Zanoncelli, libero del Cagliari di Ventura, si traveste da Babbo Natale con anticipo largo e regali, fa un autogol e mette sul piatto di Volpi & co. la prima storica vittoria esterna del campionato. Nelle due gare successive, due 0-0 di diverso peso specifico: quello interno col Piacenza può apparire ed in fondo è una grossa occasione perduta, quello di Vicenza sa di mezzo miracolo. Stop. Si chiude su delle facce, attaccate alle maglie nere, verdi ed arancioni, che sbuffano per una salvezza da conquistare sul campo, ma che adesso non è proprio impossibile. Natale è alle porte, e solitamente, in questi casi, Babbo Natale recita da protagonista, e la Befana fa la parte di quella cattiva, che ti regala le cose ma ti rigetta anche nel mondo reale dopo i gozzovigli di cibo e risate tipici delle feste. Stavolta, però, le parti si invertono. La Befana, a Venezia come in milioni di altri posti, ha fatto il suo dovere. Nella città lagunare l’ha fatto con qualche giorno di ritardo, quando Babbo Natale aveva già partorito l’idea ed era tornato nella sua pensione dorata ma come dice il detto, “Basta il pensiero”. La signora vecchia, brutta e con la scopa ha infatti lasciato in regalo un piccolo ragazzo sudamericano. È nato in Uruguay, per la precisione a Montevideo. Lo chiamano “El Chino”, e non a caso: più che latinoamericano, il suo volto sembra uscito da un film di Bruce Lee su Kung-Fu o diavolerie simili. Il suo cartellino appartiene all’Internazionale Football Club di Milano, che sotto la targa della sede potrebbe tranquillamente apporre la scritta “zoo di fantasisti, numeri dieci e mezzepunte in libertà vigilata”. C’è Baggio, c’è Pirlo, c’è Djorkaeff. Poi, e solo poi, c’è Recoba. L’anno prima, in otto presenze, tre gol. Detto così, suona di mezzo fallimento. Chi se le ricorda, quelle tre perle, sa invece che parlare di fallimento è un’eresia: alla prima delle prime, doppietta dalla trequarti con il Brescia. Alla fine dell’andata, gol da centrocampo con l’Empoli. Insomma, un mago dal sinistro di pietra ma incantato allo stesso tempo. Il problema è che Simoni lo vede adatto alla causa come un vegetariano guarda una costoletta di maiale. Insomma, dopo la prima stagione, nella seconda la musica non cambia, anzi diminuisce di volume: zero feeling e una presenza. Maurizio Zamparini e il suo fido braccio destro Marotta fiutano l’affare, Novellino l’avalla, ed ecco sbarcare Il Chino sulle sponde della laguna. Per far spazio a Recoba, viene sacrificato l’eroe della promozione: Schwoch firma per il Napoli, per far sognare e vincere un’altra piazza disabituata, seppur da meno tempo, alle grandi felicità. Il Venezia riparte da qui, dalla sua nuova coppia d’attacco e dalla volontà di confermare il buon momento di gioco e risultati. L’esordio del “Chino” è datato 17 gennaio: sette giorni prima, alla ripresa delle ostilità per i neroverdi, (che si sono visti rinviare per nebbia la gara della Befana contro l’Empoli), l’Inter ha fatto l’Inter e a San Siro ha caricato di ben sei pallettoni la squadra di Novellino, capace di rispondere con sole due reti. Il 2-6 patito al “Meazza” non sembra essere il miglior viatico per i lagunari: al “Penzo” c‘è una Juve attardata dalla vetta, ma pur sempre vestita, e nobilmente, di bianconero. Alla fine, il divario non si avverte nel risultato: 1-1 e primi minuti messi nelle gambe dal Chino, sostituito da Marangon quando il cronometro segna il numero cinquantacinque. Tre giorni dopo, il recupero con l’Empoli, e prima festa veneziana del 1999, in attesa del carnevale di febbraio: i lagunari rispondono ai due rigori del primo tempo di Di Napoli con tre reti, ad opera di Fabian Valtolina, onesto gregario, e di un doppio Maniero, vice Superpippo della Serie A per ordine gerarchico dopo Inzaghi.Poi venne il giorno del fattaccio: è il 24 di gennaio. Il Venezia, per i motivi di cui sopra, riceve ancora al “Penzo”, e gli ospiti sono i galletti biancorossi del Bari. 1-0, Maniero. 1-1, De Ascentis. E poi, minuto numero novanta: un ragazzo di colore che come apelido ha scelto Tuta, dai tratti cinematograficamente comuni per il paese italico (imbaraz zante la somiglianza con Aristoteles, il miglior centravanti brasiliano che Lino Banfi abbia mai allenato...), getta in rete il pallone del 2-1. Invece che festeggiarlo e festeggiare, i compagni hanno musi lunghi come quelli di cani bastonati. Non tristi, ma terribilmente arrabbiati sono gli avversari baresi, che nel tunnel del ritorno negli spogliatoi quasi fanno una carneficina con i lagunari. Insomma, c’è puzza di combine. L’inchiesta avviata dalla giustizia sportiva non spiega un bel nulla, salva questi baldi “ragazzi alla pari” da guai peggiori e getta nel dimenticatoio una brutta storia. I tre punti portano per la prima volta il Venezia fuori dalla zona retrocessione. La squadra capisce che non è un punto di arrivo, ma di partenza: adesso c’è un signore, lì davanti, che crea e ricama come mai si era visto da queste parti. Il primo ad approfittarne è Pippo Maniero: a Parma, i padroni di casa gialloblu solo nel finale riescono a pareggiare con Chiesa la doppietta dell’attaccante, mentre la Roma di Zeman ne busca tre al Penzo, che festeggia, il giorno 7 febbraio, la prima rete lagunare di Recoba. Il conto lo chiudono ancora l’indemoniato Maniero ed il carneade Ballarin. La sconfitta di misura (1-2) patita a Milano con i lanciati rossoneri di Zaccheroni è solo un incidente di percorso, ripagato una settimana dopo con la stessa moneta al Perugia: a segno ancora i soliti noti, Recoba e Maniero. Il Chino è praticamente indomabile: serpentine ubriacanti, calci da fermo da favola e finalmente anche gol decisivi: suo il rigore che a sette dal termine consente ai ragazzi di Novellino in arte Monzon di battere l’Udinese e di portarsi a +6 sulla zona retrocessione. Altro piccolo infortunio intermedio la sconfitta del 7 marzo patita a Bologna, ancora per 2-1; perché poi torniamo al fotogramma iniziale, chiudiamo il flashback e raccontiamo una storia che sa di sogno. Il 4-1 alla Fiorentina consacra alla serie A la stella di Recoba, ragazzo da tripletta, uomo-copertina e talento da vetrina del campionato. Moratti, vedendo agonizzare la sua Inter, si mangia le mani: questo campione dal sinistro di fata avrebbe fatto parecchio comodo, ed invece è a fare le fortune di un Venezia che passa il resto della stagione tra il sollazzo e l’attenzione a non ricadere nelle sabbie mobili. Verranno altri gol firmati Recoba, a cominciare da quello decisivo segnato al Cagliari alla ventinovesima. Verrà la grande soddisfazione, alla trentatreesima, di suggellare la salvezza matematica con un sontuoso 3-1 proprio all’Inter. Verrà una salvezza comoda alla fine, specie se si pensa alle difficoltà iniziali di una squadra poco abituata al grande palcoscenico e che solo con l’arrivo di un piccolo genio inespresso riuscirà ad esprimere le sue ottime qualità. Verrà, infine, l’ultimo gol, al novantesimo dell’ultima giornata, ancora di Recoba: il secondo gol veneziano nell’indolore 2-3 patito dalla Juventus a Torino è il modo migliore e più giusto di chiudere il sipario su una stagione che più bella nessuno poteva immaginare nella città delle gondole. Grazie a Zamparini, presidente a dir poco vulcanico ma innamorato intenditore dall’occhio lungo, capace di reprimere il suo istinto di killer di allenatori ed aspettare il “dai e dai” di venezian proverbio, dando fiducia a Novellino, regalandogli Recoba e salvando un Venezia considerato spacciato dai più. Grazie a Marotta, dirigente scaltro che col tempo coglierà i sontuosi frutti di passione e conoscenze rare nel mondo dirigenziale calcistico. Grazie a Novellino, allenatore che per parecchie stagioni a venire non sbaglierà mai un colpo. E grazie a lui, il “Chino”, Alvaro Recoba, giocatore impareggiabile ed indiscusso ed indimenticato idolo di una tifoseria che con lui ha vissuto momenti da favola incorniciati con traiettorie disegnate da un sinistro intonato come l’ugola di un grande tenore.

Il Vicenza del sogno Europeo

Dei suoi tempi “Real”, poco dopo la metà dei settanta, il Vicenza conservava ancora ricordi indelebili: secondo posto in campionato ed esordio in Coppa UEFA, un nugolo di giornalisti ed addetti ai lavori completamente incantati dal calcio espresso dai ragazzi di Gibì Fabbri ed i gol di un attaccante, Paolo Rossi non ancora “Pablito” di argentina memoria, che farà la fortuna di tutta l’Italia calcistica al Mundial 1982. Ma il volo del Lanerossi fu come quello del buon Icaro: una volta toccato il sole, cominciò rapido il declino, che portò la squadra subito in B, poi addirittura in terza serie. Il glorioso Lanerossi, venti campionati consecutivi in A tra il 1955 e il 1975 e un blasone grande quanto la classe dei due Palloni d’Oro lanciati nel grande calcio (il già citato Paolo Rossi e il grande Roberto Baggio), scompare all’alba degli anni novanta. Il club viene rilavato dall’industriale tessile Pieraldo Delle Carbonare, diviene semplicemente Vicenza Calcio e viene affidato alle sapienti mani di Sergio Gasparin. La promozione in cadetteria viene colta nella stagione 1992/93: in panchina siede Renzo Ulivieri, che lascerà i suoi ragazzi al termine della successiva stagione, dopo aver conquistato la salvezza. Il ritorno tra i grandi è dietro l’angolo, stagione 1994/1995: i ragazzi di Guidolin, mister rampante e ricacciato dalla A dopo un assaggio poco fortunato con l’Atalanta, guidati sul campo dalla bandiera Mimmo Di Carlo, da Fabio Viviani e da Roberto Murgita, colgono il terzo posto in Serie B che vale la massima serie. La grande avventura dei biancorossi nella Coppa delle Coppe 1997/98Il primo anno di A è da incorniciare: gli arrivi degli stranieri Otero, Bjorklund e Mendez, la conferma dell’allenatore e del gruppo storico ed un gioco divertente conducono i biancorossi ad un’agevole salvezza, conquistata con forte anticipo e suggellata dall’ottimo nono posto finale. La seconda stagione è paragonabile ad una vera leggenda: i biancorossi cominciano alla grande il campionato, assaggiano in novembre anche il primato, a vent’anni esatti dalle gesta del “Real” di Fabbri, Rossi e Filippi  Il volo in campionato dura il giusto, e si conclude comunque con un ottavo posto che sa di impresa. Il vero teatro dei sogni è però la Coppa Italia: i ragazzi di Guidolin, dopo aver eliminato Lucchese e Genoa, si trovano di fronte al Milan per i quarti di finale. Il doppio pareggio (1-1 a San Siro con reti di Baggio e Ambrosetti e 0-0 al “Menti”) schiude alla matricola terribile le porte della semifinale, da disputarsi contro il Bologna dell’ex Ulivieri, altra grande sgualcita dal tempo e dalle crisi appena risalita tra i grandi. Il Vicenza passa di misura in casa grazie alla rete del centravanti genovese Murgita, pareggiata al ritorno del “Dall’Ara” dalla rete del bolognese Scapolo; tocca a Cornacchini, a soli due minuti dal termine, regalare ai biancorossi il pass per la prima storica finale di Coppa Italia.Magic Moments biancorossi. Ad attendere il Vicenza c’è il Napoli, che, nonostante i buoni risultati iniziali ed il convincente cammino in Coppa, ha appena licenziato il buon Gigi Simoni per lasciar campo all’uomo di casa Montefusco: all’andata, nella bolgia di un San Paolo stracolmo, gli uomini di Guidolin riescono a limitare il passivo. 1-0, rete di Pecchia, fine delle trasmissioni, appuntamento al “Menti”. Vestito a festa e pieno come un uovo, lo stadio del Vicenza si rivela amaro per i colori azzurri: il gol di Pecchia viene immediatamente pareggiato dal tap-in vincente di Gimmy Maini, che trascina così la gara sino ai tempi supplementari. Il minuto di grazia è il centodiciottesimo: calcio di punizione per i biancorossi, destro secco di Beghetto, Taglialatela arpiona male e Maurizio Rossi è il più lesto di tutti a presentarsi all’appuntamento con la storia. La festa del Vicenza diventa tripudio assoluto quando il giovane Ianuzzi, grande promessa persasi poi nel firmamento del calcio italico, chiude i conti di un perentorio quanto inappuntabile 3-0. La folla del Menti porta in trionfo un gruppo fantastico, che in soli quattro anni è passato dal vivacchio in terza serie sino alla vittoria in Coppa Italia ed al ritorno in Europa. Il buon Gibì Fabbri ed il bonario Paolo Rossi sorridono: il “Real” ha un erede biancorosso pronto a recitare di nuovo nel teatro dei sogni del calcio internazionale. Gli artefici del sogno possono cullarsi in un meritato fregiarsi di gloria: a Gasparin tocca tenere una lezione all’Università di Pavia per raccontare come è possibile trasformare una società allo sbando in una macchina che vale più di venti miliardi di lire (“Quando andai negli USA a spiegare che avrei lasciato il mio lavoro da manager all’ azienda per prendere il controllo di una squadra di terza serie, gli americani credevano che li stessi prendendo in giro”), mentre il mister Guidolin sfila al forum degli industriali veneti per spiegare come ha motivato i suoi ragazzi (“Al mio arrivo a Vicenza trovai una squadra ben allenata e disposta ad ubbidire. Ma nessuno aveva il coraggio di alzare gli occhi. Io volevo persone vive”).Il meglio comunque deve ancora arrivare: la stagione 1997/98, la terza in serie A, si apre con gli acquisti di gente destinata a lasciare il segno: arrivano infatti Pasquale Luiso, Roberto Baronio, Francesco Coco, Arturo Di Napoli, Lamberto Zauli, Marco Schenardi, Lorenzo Stovini e Massimo Ambrosini, mentre salutano la compagnia Murgita e Gimmy Maini. In campionato, l’inizio è tranquillo ed in linea con le aspettative, pur senza i picchi di risultati e rendimento toccati l’anno precedente; in Coppa Italia c’è invece da ingoiare una pesante eliminazione per mano del Pescara, squadra di Serie B. I biancorossi riescono però dove fallì persino il “Real” di Fabbri: il sorteggio europeo è abbastanza duro, e riserva al Vicenza lo scontro con i polacchi del Legia Varsavia. L’emozione del nuovo debutto, datato 18 settembre 1997, dura un nonnulla: al termine del primo tempo è già 2-0, a segno Luiso e Ambrosetti. Il doppio vantaggio dura sino al termine, e permette ai ragazzi di Guidolin di amministrare con tranquillità il match di ritorno in Polonia. Il Legia, caricato dal suo pubblico, riesce solo a dimezzare lo svantaggio, con un gol di Kacprzak, facendosi poi beffare in contropiede, a tre minuti dalla fine, dal gol di Zauli, che spinge il Vicenza agli ottavi di finale. Ad attendere i ragazzi di Guidolin lo Shaktar Donetsk, squadra ucraina destinata ad un luminoso futuro ma ancora immersa in uno stato di anonimità pressoché totale: il Vicenza approfitta del turno favorevole, sconfiggendo i rivali sia in trasferta (3-1, doppietta di Luiso, rete di Beghetto e gol della bandiera dell’ucraino Zubov) che al Menti (2-1, con gol del solito Luiso e di Viviani inframmezzati dal momentaneo pareggio di Atelkin, futura meteora del Lecce). Mentre in società si è appena concluso il passaggio di consegne tra il Delle Carbonare e una finanziaria inglese mai troppo amata e benvoluta dalla città, i ragazzi di Guidolin continuano nel loro tranquillo campionato e si apprestano a disputare i quarti di finale di Coppa delle Coppe: il sorteggio pone di fronte ai biancorossi il Roda Kerkrade, squadra olandese di modeste tradizioni. Il Vicenza fa valere l’enorme divario tecnico tra le compagini con una doppia goleada. In Olanda finisce 4-1: grande partita del tornante Schenardi, che realizza gli assist per i primi due gol di Luiso e Belotti. Il “Toro di Sora” si ripete a cinque minuti dalla fine del primo tempo, sfruttando un assist di Zauli, che si ripete nella ripresa ed apre la strada al gol dell’uruguagio Otero. Il gol della bandiera dei gialloneri è ad opera di Peeters. Il giorno della festa del papà del 1998, a Vicenza, è di scena il ritorno: i ragazzi di Guidolin, bulimici di gol ed applausi, ci prendono gusto: 5-0, con cinque marcatori diversi (Luiso, Firmani, Mendez, Ambrosetti e Zauli). Un divario enormei tra le due squadre, con i tifosi del Vicenza, impietositi, che a un certo punto iniziano a sostenere gli sforzi del Roda per arrivare al gol della bandiera... E' quindi semifinale. Un vero e proprio sogno ad occhi aperti: il Vicenza è pronto a giocarsi la sua prima finale europea e condivide la stessa urna con Chelsea, Stoccarda e Lokomotiv Mosca, a soli tre anni dal ritorno in serie A. Brivio, Belotti, Mendez, Dicara, Viviani, Schenardi, Di Carlo, Ambrosini, Ambrosetti, Zauli, Luiso. Ecco gli undici in campo la sera del 2 aprile 1998. Vicenza e l’Italia del calcio si fermano: i biancorossi di Guidolin sfidano il Chelsea per la semifinale di andata di Coppa delle Coppe. Proprio il Chelsea “italiano”, che schiera gente come Zola, Leboeuf, Di Matteo e Vialli, e che solo qualche mese addietro ha licenziato l’altro mezzo “italiano” del gruppo, l’allenatore Gullit, per affidarsi alle doti da mister dello stesso Vialli, primo allenatore-giocatore italiano arrivato a giocarsi una semifinale europea. Per blasone, nomi in campo, trofei vinti e bookmakers, la partita non dovrebbe avere storia: i carneadi vicentini, invece, come nelle migliori sceneggiature, riescono a tenere testa ai “Blues”, portandosi in vantaggio al quindicesimo con un gol capolavoro del solito Lamberto Zauli (aggancio volante al vertice dell’area, dribbling a rientrare e sinistro piazzato nell’angolino opposto), e difendendo egregiamente il punteggio sino alla fine del primo tempo. Al ritorno in campo, gli inglesi appaiono molto più determinati e convinti: sfiorano il gol in diverse occasioni, per poi accontentarsi dello 0-1 e decidere di giocarsi il tutto per tutto nel ritorno di Stamford Bridge, in programma il 16 aprile. Il Vicenza che ha stupito l’Europa si presenta in Inghilterra in formazione-fotocopia, convinto di poter tenere nuovamente testa ai “Blues” e alla loro meravigliosa platea. L’inizio della gara, giocata sotto la pioggia che fa quasi sempre da cornice alla capitale inglese, sembra ancora una volta dare ragione a Guidolin. Al contesto e all’evento del minuto trentadue mancano solo zucca e topolini per entrare in “zona-favola”: dribbling secco di Zauli, meravigliosa scucchiaiata a metà tra Ambrosetti e Luiso e secco diagonale a mezz’altezza di quest’ultimo. De Goey è battuto.Il “Toro di Sora”, attaccante di irruenza e spirito di sacrificio incredibili (“Crossatemi una lavatrice e colpirò di testa anche quella”: eloquente manifesto del “Luiso-pensiero” riguardo al gol), mette a segna il suo ottavo gol in Coppa delle Coppe, imita Batistuta al Camp Nou zittendo Stamford Bridge e porta in discesa la gara dei berici. Al Chelsea ora servono tre gol per giungere in finale: purtroppo, il primo arriva dopo soli tre giri di lancette. Il marcatore è l’uruguagio Poyet, che approfitta di una corta respinta del portiere vicentino Brivio ed in acrobazia firma l’1-1 che riporta la situazione al punto di partenza. Il primo tempo termina con il risultato ancora in parità, ma solo dopo le timide polemiche per un gol, probabilmente regolare e ancora di Luiso, non concesso ai veneti per fuorigioco. La ripresa si apre, purtroppo, col botto-Chelsea: grande progressione sull’out destro di Vialli, cross al centro per Zola, che, tutto solo a centro area, può comodamente incornare in rete il pallone del 2-1. A questo punto, ai “Blues” manca un solo gol. Vialli pesca dal suo mazzo la carta decisiva, sostituendo Morris con il vecchio leone Hughes: al minuto numero settantasei, l’ex attaccante di Manchester e Barcellona sfrutta un lunghissimo rilancio di De Goey ed un errore di Dicara, battendo Brivio con un meraviglioso diagonale incrociato di sinistro. Il 3-1 esalta Stamford Bridge e abbatte i veneti, incapaci di reagire nonostante gli ingressi di Otero e Di Napoli. La gara si chiude con l’espulsione di Ambrosini e l’ultimissima occasione, fallita da Di Napoli e Luiso a soli quattro secondi dalla fine. Sipario. Il Vicenza, dopo aver coinvolto in un sogno meraviglioso tutti gli sportivi italiani, esce sconfitta a testa altissima dalla semifinale dopo un torneo straordinario: I ragazzi di Guidolin portano il loro bomber Luiso in vetta alla classifica cannonieri di Coppa delle Coppe, ma, ad un passo dal sogno, devono cedere il passo al maggior tasso di esperienza del Chelsea, che, ancora grazie a Zola, riuscirà in finale ad avere la meglio sullo Stoccarda. Applausi a scena aperta e ringraziamenti senza fine ad una provinciale che incarna i valori più buoni dello sport e che ha saputo conquistarsi il rispetto, la simpatia e l’ammirazione di un intero continente. Il Vicenza chiude la stagione 1997/98 ad un solo punto dalla zona retrocessione: l’impegno europeo assorbe gran parte delle energie dei berici, che grazie al buon rendimento dell’andata riescono a rendere indolore il pessimo girone di ritorno disputato (soli quindici punti conquistati). Al termine della stagione, si consumano gli inevitabili divorzi con tutti i grandi artefici del sogno europeo: Guidolin passa all’Udinese, Ambrosini e Coco tornano al Milan ed anche Gasparin lascia l’incarico. In panchina è il turno di Franco Colomba, che dura venti tumultuose giornate: la squadra, nonostante le conferme degli alfieri Luiso, Otero, Schenardi, Zauli ed Ambrosetti, non gira, e lo spettro della retrocessione si fa sempre più minaccioso, fino a materializzarsi completamente dopo l’undicesima sconfitta esterna, patita a Salerno nella penultima giornata di campionato. Il successivo campionato di B è trionfale: primo posto ed immediato ritorno in serie A, con Reja in panchina ed un nuovo giovane fenomeno, Gianni Comandini (autore di ben ventuno reti), a far coppia con Pasquale Luiso in attacco. La gioia è effimera: la retrocessione sarà immediata e dolorosissima, così come sarà difficile da digerire la serie, ancora ininterrotta, di dideci campionati di serie B consecutivi, vissuti sempre sul filo di una mediocrità che poco si addice col blasone aristocratico che veste su misura, ormai da tempo immemore, la squadra biancorossa. Omaggio a Francesco Guidolin, l'artefice del sogno europeo del Vicenza.  Londra è lontana, ed il Chelsea, che tanto aveva patito per buttar fuori i berici dalla Coppa delle Coppe, spadroneggia in giro per l’Europa con campioni purtroppo inavvicinabili al calcio vicentino d’oggi. Il buon Gibì Fabri, il giovane profeta Guidolin, oggi affermato allenatore di Serie A, Rossi e Filippi, Zauli e Luiso aspettano ancora di trovare degli eredi che riescano a riportare a Vicenza momenti di gloria colorati di biancorosso.

Avellino: storica salvezza

I miracoli anche nel calcio a volte si avverano, specialmente quando puoi contare su un pubblico che, come disse il presidente romanista Dino Viola, “ti trascina dall’inizio alla fine, rendendo il tuo campo difficile per tutti”. La salvezza conquistata dall’Avellino al termine del campionato di A 1980/81 è passata alla storia del calcio come “l’impresa dei lupi verdi”. Per l’Irpinia, fu un anno funestato dal terremoto del 23 novembre ’80. La stagione, oltretutto, si portava dietro le decisioni della Giustizia Sportiva per lo scandalo del calcio-scommesse. Il massimo campionato salutò Milan e Lazio, condannate dalla Caf alla retrocessione in B per illecito sportivo. Avellino, Bologna e Perugia se la cavarono con una penalizzazione di 5 punti. Il mercato estivo fu vivacizzato dalla riapertura delle frontiere dopo 14 anni. Tra i giocatori stranieri che giunsero in Italia, i colpi migliori furono messi a segno dalla Roma, che si assicurò il brasiliano Falcao, dal Napoli (con l’olandese Krol), dalla Fiorentina (l’argentino Bertoni) e dalla Juventus che portò in bianconero l’irlandese Liam Brady L’Avellino, zavorrato dalla penalizzazione, venne affidato alle cure del brasiliano Luis Vinicio, allenatore tra i primi ad applicare, alla guida del Napoli 74/75, uno schema che poteva associarsi al calcio totale olandese anche se, come disse in un’intervista del ’79 al Guerin Sportivo, preferiva chiamare il suo calcio con un solo termine: moderno. Già alla fine degli anni 60, alla guida dell’Internapoli, Vinicio aveva sperimentato lo schema a zona che l’ex attaccante di Belo Horizonte definiva “il più redditizio, in grado di dare bellezza e fluidità alla manovra”. Tra i punti di forza dell’Avellino, oltre a capitan Di Somma, spiccava l’attaccante Mario Piga, autore del gol decisivo contro la Sampdoria che aveva determinato, nel 77/78, la storica promozione in A degli irpini allenati da Paolo Carosi, punto d’avvio di uno strepitoso decennio in massima serie. Beniamino Vignola fu il giocatore al quale venne affidata la cabina di regia della squadra. Scoperto a Verona da Antonio Sibilia, abilissimo talent scout, il veneto fu un ottimo acquisto ed ancora oggi è ricordato come il miglior numero 10 transitato in Irpinia. Confermato Piga, tra i punti di forza dell’Avellino 80/81 spiccava Criscimanni, centrocampista dotato di buona tecnica individuale che non disdegnava le conclusioni a rete. Tra i pali, dopo la cessione al Milan di Ottorino Piotti, portiere tra i più amati dalla tifoseria irpina, venne ingaggiato il giovane Stefano Tacconi, 23 anni, reduce da una buona annata con la Sambenedettese. In attacco, arrivò dal Brasile Jorge dos Santos Filho, detto Juary, centravanti ventunenne, pescato nel club messicano de l’Universidad de Guadalajara, con un passato anche al Santos, società in cui aveva raggiunto la sua maturazione calcistica. Aveva convinto gli osservatori italiani per la velocità e l’abilità nei dribbling, unite ad un bagaglio tecnico non trascurabile. Dopo l’iniziale diffidenza, il feeling con i tifosi irpini fu solido per un attaccante che tornò molto utile agli schemi offensivi di Vinicio. La partenza stagionale dell’Avellino fu beneaugurante. Nella prima fase di Coppa Italia, la squadra di Vinicio riuscì a mettere in riga l’Inter, campione d’Italia in carica, e il Milan che, pur declassato in cadetteria, aveva mantenuto gran parte dell’organico con cui aveva conquistato il titolo italiano nel 1979. L’esordio ufficiale in coppa fu proprio contro i rossoneri: 1-1, con vantaggio irpino di Criscimanni e pareggio di Franco Baresi. Per la prima partita ufficiale, Vinicio schierò la seguente formazione: Tacconi, Massini, Giovannone, Beruatto, Cattaneo, Di Somma, Massa, Criscimanni, Ugolotti, Vignola, De Ponti. Le vittorie contro Palermo e Catania, oltre al pareggio a San Siro contro i nerazzurri, permisero all’Avellino di accedere ai quarti di finale. La stagione miglior inizio non poteva avere. Il rodaggio in Coppa Italia permise all’allenatore brasiliano di fugare alcuni dubbi, a cominciare dal portiere. Dopo le iniziali perplessità, le buone prestazioni di Tacconi, specialmente contro il Catania, convinsero finalmente l’allenatore brasiliano. “Avevo parlato, durante il ritiro estivo, dei miei dubbi su Tacconi. - ha affermato Vinicio rievocando quella stagione calcistica – Lo ritenevo non ancora pronto per il ruolo di titolare, specie in una squadra costretta a partire con una penalizzazione. Chiesi al mio presidente di acquistare un altro portiere. Poi, le parate di Tacconi contro il Catania mi fecero ricredere” Il 14 settembre ’80 ha inizio il campionato di A. L’esordio è subito ostico per gli irpini: trasferta a Brescia, contro una diretta concorrente per la salvezza. In avvio di gara, De Ponti portò in vantaggio gli ospiti. La squadra mostrò subito sicurezza e personalità. Al pareggio del bresciano Sella, fece seguito il gol partita del coriaceo Valente: Brescia-Avellino 1-2, quota zero era già meno distante. Le due giornate seguenti, tuttavia, segnarono per gli irpini un brusco ritorno alla realtà di pericolante. L’esordio al “Partenio”, contro la Fiorentina, fu negativo: i viola prevalsero 3-2, grazie ad una doppietta di Desolati. Sette giorni dopo, al Comunale di Torino, i granata Graziani e Pecci inflissero un altro ko a Di Somma e compagni. La partita casalinga contro il Cagliari venne già definita da “ultima spiaggia”. Fu la partita dei nuovi arrivati. Dopo un quarto d’ora, Vignola segnò su rigore, in avvio di ripresa, Juary riportò in vantaggio gli irpini, andando poi a festeggiare con il celebre giro della bandierina a braccio alzato. Tre piroette che diventarono quasi un rito scaramantico. Il centravanti brasiliano si era finalmente sbloccato. La sua velocità di palleggio, unita alla capacità di calciare indifferentemente con i due piedi, misero spesso in ambasce i difensori avversari. L’ultimo punto di penalizzazione l’Avellino lo scontò pareggiando a Perugia: il campionato degli irpini, cominciava praticamente alla sesta giornata. Lo stadio “Partenio”, un’autentica bolgia che sospingeva i lupi verdi di Vinicio, divenne inespugnabile, una Fortezza Bastiani a prova di tartari. Il Como si illuse di poterne uscire indenne: Piga e Criscimanni ribaltarono lo svantaggio iniziale dando i primi due punti alla squadra. Perso di misura il derby contro il Napoli, l’Avellino ribadì la “legge del Partenio” contro l’Ascoli. Quella domenica – era il 23 novembre 1980 – venne funestata in serata dal terremoto che devastò parte della Campania, l’Irpinia soprattutto. “Ero davanti alla televisione per la sintesi di Juventus-Inter quando avvertì la scossa”, disse Stefano Tacconi. “Attimi di vero panico, - affermò Di Somma – io e mia moglie volevamo buttarci dal terrazzo per un tentativo di fuga dall’immobile dove abitavamo. Rimanemmo come impietriti e fu un bene. C'erano delle situazioni drammatiche: morti a terra, gente che tirava i propri parenti dalle macerie”. Lo stadio “Partenio” diventò un campo di accoglienza per i senzatetto. La squadra irpina, per le partite interne, fu costretta a spostarsi al San Paolo di Napoli. L’Avellino non poté non risentire della tragedia. Le due partite seguenti, contro Pistoiese e Udinese, registrarono altrettante battute d’arresto della squadra di Vinicio. Gli irpini, ultimi in classifica, prima della sosta natalizia ottennero un prezioso successo contro il Catanzaro, con Juary ancora match-winner. Si tornò al San Paolo anche dopo Natale, questa volta per affrontare la Juventus vicecapolista. Un gol di Piga nel finale diede ai lupi verdi un punto d’oro. La squadra, pur penultima, restava molto vicina alle altre pericolanti, quindi in piena lotta salvezza. Uscito indenne da San Siro (0-0 contro l’Inter), il 25 gennaio ’81 l’Avellino festeggiò il ritorno al “Partenio” battendo 2-0 il Bologna, grazie alle reti di Massa e Criscimanni. L’ultima di andata riservò la trasferta sul campo della Roma prima in classifica. Al vantaggio di Di Bartolomei replicò Massa, giocatore esperto e dal discreto fiuto del gol. Il pareggio all’Olimpico era oro colato. Il peggio sembrava ormai alle spalle anche se la scalata della montagna, in cima alla quale si trovava la bandierina della permanenza in serie A, era ancora pregna di pericoli. Un gol del difensore Cattaneo aprì il ritorno con una vittoria pesante contro il Brescia, ottenuta a spese di una diretta concorrente nella corsa salvezza. Per la prima volta, la squadra di Vinicio usciva dalla zona retrocessione, lasciandosi tre squadre alle spalle. Il cammino dei biancoverdi fu speculare:vittorie in casa, sconfitte in trasferta. Tra i successi, il più prezioso fu quello contro il Perugia, con rete di Vignola quasi allo scadere. L’Avellino aveva trovato il suo centro di gravità permanente, merito soprattutto di Vinicio che era riuscito a plasmare la squadra secondo un preciso credo tattico. Il pareggio ad Ascoli e la netta vittoria interna contro la Pistoiese, collocarono gli irpini in decima posizione. Cosa impensabile appena cinque mesi prima. Giunto all’ultimo sforzo, la salita finale per il ciclista avviato a tagliare gloriosamente il traguardo, l’Avellino preferì non rischiare contro l’Udinese (0-0 casalingo), pareggiando anche a Catanzaro dove fu il difensore Ipsaro Passione a togliere dagli impicci la squadra campana. Il calendario, però, riservava agli uomini di Vinicio un finale da scalata della “Cima Coppi”: Juventus e Bologna in trasferta, Inter e Roma in casa. La salvezza era ancora tutta da conquistare.

Il Genoa nella storia del calcio

Quando si parla di calcio in Italia, inevitabilmente non si può fare riferimento al Genoa che oltre a vincere il primo Campionato Nazionale, per quasi dieci anni dettò legge nelle vicende italiche del football Se è vero che il quadrangolare grazie al quale venne assegnato il primo titolo calcistico italiano si disputò in una sola giornata, è altrettanto vero che non si trattò di una sporadica manifestazione bensì dell'avvenimento clou del 1897-1898, la prima vera e propria stagione calcistica del nostro Paese. Torino possedeva allora ben due sodalizi che praticavano esclusivamente il calcio (oltre alla Società Ginnastica che aveva aperto da poco una sezione di football e alla Juventus che però era ancora la squadra del Liceo Massimo D'Azeglio): l'International Football Club e il Football Club Torinese. Il Genoa Cricket and Athletic Club aveva sfidato le due società torinesi (unitesi per l'occasione) in un doppio scontro: perso di misura (0-1) quello del 6 gennaio a Ponte Carrega (nel primo incontro ufficialmente documentato della storia del calcio in Italia) si rifece con lo stesso risultato due mesi dopo a Torino. Anche l'Unione Pro Sport di Alessandria dovette soccombere in casa propria (2-0) come pure il Football Club Liguria di Sampierdarena, fondato nell'aprile del 1897 e a tutti gli effetti il progenitore della Sampdoria: 4 a 2 in primavera e 4 a 1 la rivincita in autunno. Anche l'equipaggio della nave britannica Clementine perse sia la partita d'andata che il ritorno mentre gli ufficiali della corazzata Revenge inflissero al "Cricket Club" l'unica vera debacle della stagione. Tutto era pronto per il primo campionato ufficiale istituito dalla Federazione Italiana del Football che nel frattempo in due sedute (15 e 26 marzo) si era costituita a Torino. Nella seconda data si decise il giorno e le società che avrebbero preso parte a quel primo scontro che avrebbe concluso la stagione sportiva di football. GENOA 1898-1906 All'epoca dei pionieri del football la prima grande squadra italiana a imporre un ciclo fu il Genoa di Spensley. L'8 maggio 1898 nell'ambito dei festeggiamenti in occasione dell'Esposizione Internazionale per i cinquant'anni dello Statuto Albertino, ebbe luogo al Velodromo Umberto I di Torino (nei pressi dell'ospedale Mauriziano) il primo Campionato italiano di calcio. Nell'eliminatoria della mattina il successo arrise ai bianconeri (a striscie verticali) dell'International capitanato da Savage che avevano superato per 1 a 0 i gialloneri (anch'essi a striscie verticali) del Football Club Torinese del marchese Ferrero di Ventimiglia. E il Genoa (in camicia bianca) batté per 2 a 1 la sezione calcio della Società Ginnastica (maglia blù con striscia rossa orizzontale) presieduta dal Cavalier Bertoni.  Al pomeriggio la finale venne disputata davanti a oltre un centinaio di spettatori per un incasso di 197 lire. Si conosce la formazione del Genoa: Baird, De Galleani, Ghigliotti, Pasteur, Spensley, Ghiglione, Le Pelley, Bertollo, Dapples, Bocciardo, Leaver. Dopo i tempi regolamentari Genoa ed International di Torino erano ancora sull'uno a uno. Nei supplementari il "golden goal" fu messo a segno dall'ala sinistra genoana Leaver. Un triplice grido di "Urrah!" da parte dei giocatori di entrambe le squadre (alla moda inglese) salutò la vittoria dei Grifoni che si erano così aggiudicati il primo campionato italiano di calcio. La Società si portò a casa una coppa generosamente offerta dal Duca degli Abruzzi, mentre a ciascun giocatore andò una medaglia d'oro stile rococò. Furono proprio queste medaglie - chiamate "targhette" - il simbolo tangibile della vittoria nel campionato. Di scudetto si parlerà soltanto nel 1924 e sarà di nuovo il Genoa la prima squadra ad appuntarselo sulle maglie. Iniziò così il primo ciclo della prima grande squadra di football italiana. Nella stagione seguente è ancora il Genoa (che ha definitivamente fissato la ragione sociale in Genoa Cricket and Football Club e ha adottato le nuove camicie a strisce verticali biancoblù) ad aggiudicarsi il titolo: battuto il FBC Liguria il 26 marzo 1899 nelle eliminatorie liguri, superò per 3 a 1 nella finale di Ponte Carrega del 16 aprile la vincente delle solite tre società torinesi in lizza: l'International FBC. Due settimane più tardi cinque giocatori genoani faranno parte della prima selezione nazionale in una sfida contro la rappresentativa svizzera al Velodromo Umberto I di Torino: finirà 2 a 1 per gli elvetici quello che può essere considerato a buon diritto l'esordio della Federazione Italiana del Football in campo internazionale (di Nazionale vera e propria si parlerà solo nel 1910). Nuovo secolo (o ultimo anno di quello precedente - a seconda delle due diverse scuole di pensiero) e nuovo titolo ad appannaggio del Genoa. Le eliminatorie regionali vedono vincitrici il FBC Torinese (sulla Società Ginnastica e - per la prima volta - sulla Juventus) per il Piemonte; il Milan (sulla Mediolanum) per la Lombardia; il Genoa (7 a 0 contro la Sampierdarenese) per la Liguria. Nell'eliminatoria interregionale il FBC Torinese avrà ragione del Milan potendo così sfidare il Genoa nella finale di Torino del 22 aprile 1900: la vittoria (3-1) arriderà per la terza volta alla Società genovese. La stagione successiva vede la prima sconfitta del Genoa in campionato: l'inarrestabile galoppata del Milan che - eliminate la Mediolanum e la Juventus - non si ferma neppure il 5 maggio 1901 a Ponte Carrega dove gli (anglo)genovesi dovranno soccombere ai rossoneri capitanati da Herbert Kilpin per 0-3. Il 1901 va ricordato per un fatto importante: ancora un mutamento nei colori sociali che diventano granata e blù scuro disposti a quarti sulla camicia; è il primo passo verso la tonalità definitiva: qualche tempo dopo diventeranno rosso-azzurri e quindi (verso il 1904) irrevocabilmente rossoblù. Nel 1902 il Genoa riprende il suo filotto di successi. Il campionato comincia a farsi più corposo: il FBC Torinese ha la meglio nel girone eliminatorio piemontese, un vero e proprio mini torneo a quattro squadre, dopo lo spareggio con la Juventus. Nella eliminatoria ligure-lombarda il Genoa ha vita più facile anche se deve incontrare per la prima volta in campionato l'Andrea Doria, Società Ginnastica genovese la cui sezione del football è rafforzata da alcuni fuoriusciti genoani, non ultimo Franco Calì, futuro primo capitano della Nazionale. Dopo il derby vittorioso per 3 a 1 i genoani eliminano anche la Mediolanum. La combattuta semifinale a Torino contro il FBC Torinese (superato per 4 a 3 dopo i supplementari) spalanca le porte della finale agli uomini di Spensley. Il 13 aprile 1902 il Genoa - superando per 2 a 0 i rossoneri a Ponte Carrega (reti di Salvadè e Pasteur II,  - si riappropria del titolo che cederà solo nel 1905 alla Juventus (finalista anche nei due anni precedenti) e che gli permetterà di aggiudicarsi la coppa Fawcus messa in palio nel 1902 dal suo presidente e destinata alla squadra vincitrice di tre titoli consecutivi. E di altri primati dovette fregiarsi il Genoa in quegli anni pionieristici. Nell'ottobre del 1902 per la prima volta in Italia viene fondato dai rossoblù il "vivaio" per ragazzi di età inferiore a sedici anni. Questa iniziativa darà i suoi frutti e due anni dopo porterà al Grifone un altro primato: vittoria nel primo campionato riserve. Veniva così definito in realtà il torneo disputato dalle squadre giovanili delle varie società. Quella del Genoa, allenata dall'infaticabile dottor Spensley, era composta da validi elementi molti dei quali avrebbero sostituito i "fondatori" al termine della loro carriera. Nel 1903 il Genoa va ad incontrare - primo club italiano - una società straniera all'estero. Si tratta del Football VeloClub Nizza che il 27 aprile viene battuto per 3 a 0 nel suo stadio (anche la partita d'andata a Ponte Carrega aveva visto soccombere la squadra francese per 0 reti a 6). Sempre in quell'anno (a dicembre) il socio-giocatore Henry Dapples mette in palio una coppa particolare: è la cosiddetta Palla Dapples. Il premio infatti consiste in una sfera d'argento delle stesse dimensioni e delle stesse caratteristiche (con cuciture in rilievo) di un pallone da football. Oggi non si può capire l'importanza che avevano questi piccoli ma combattuti tornei quando il campionato rappresentava solamente il clou della stagione, ma molte di queste sfide (spesso con ricche coppe in palio) erano all'epoca considerate altrettanto importanti. La Palla Dapples, che prevedeva degli scontri diretti al termine dei quali ogni volta il vincitore si portava a casa il trofeo per poi cederlo alla squadra sfidante che lo avesse battuto, andò avanti per ben sei anni e attraverso 47 incontri. Il 20 dicembre 1909 se lo aggiudicò definitivamente il Genoa dopo che La Palla DapplesDapples aveva decorato le sedi di Milan, Juventus, Torino, Pro Vercelli, Andrea Doria, Unione Sportiva Milanese. Intanto in campionato ancora vittorie: nel 1903 un secco 3-0 alla Juventus in finale e nel 1904 ancora contro i bianconeri e ancora vittoria, questa volta per 1-0. E gli scudetti a questo punto sono sei. Fino al 1914/15 il Genoa non riuscirà più a primeggiare in Italia: il movimento calcistico è sempre più in fermento e nuove squadre crescono all'ombra del Grifone. La giovane Juventus nel 1905 vince il suo primo campionato spezzando il filotto genoano. Nel 1906 stava volgendo al crepuscolo la stagione dei cosiddetti "fondatori", il primo grande squadrone del calcio italiano: Spensley ha quasi quarant'anni, Pasteur all'incirca trenta, per loro e molti altri si avvicina il momento del ritiro. Quell'anno il Genoa non riesce ad arrivare in finale (dove se la vedranno il Milan e la Juventus) ma due altri primati (il primo negativo il secondo decisamente più simpatico) vanno ad arricchire il palmarès che nei decenni a venire sarà ulteriormente rimpinguato. Il 18 marzo la partita con la Juventus (a Torino) viene sospesa a causa della prima invasione di campo della storia del calcio italiano. La partita verrà ripetuta il 1 aprile - a Milano in campo neutro - e da Torino e da Genova vengono organizzati i primi due treni speciali di tifosi. Finisce decisamente un'epoca, sia per il Genoa che per il calcio italiano: finisce l'epoca dei pionieri e il football diventa man mano un fatto non solo sportivo ma anche sociale e di costume.

Quando Banks compì il miracolo....

Ai Mondiali di Messico 70 l'Inghilterra uscì di scena ai quarti, ma il suo portiere Banks compì su Pelè un miracolo rimasto nella storia...1970, Messico. Si gioca a Guadalajara, poco più di mille metri di altitudine, quindi un caldo feroce. Inghilterra e Brasile debbono battersi a mezzogiorno perché alle cinque della sera a Guadalajara c'è la corrida e i messicani alla corrida non sanno rinunciare. La temperatura oscilla fra i trentacinque e i trentasette gradi all'ombra: ma sul campo, bruciato dal sole dei Tropici, sfiora i cinquanta. Lo Stadio è strapieno, ribolle di tifo, di emozioni forti, di tequila...Gli inglesi sono campioni del mondo in carica, i brasiliani sono i grandi favoriti per l'edizione in corso. La sfida è attesissima, il Brasile ha già battuto la Cecoslovacchia, l'Inghilterra si è sbarazzata della Romania, l'incontro diretto ha il sapore di una finalissima anticipata. Ci sono tutti i grandi dell'epoca: Jackie e Bobby Charlton, i fratelli d'oro del calcio inglese; Bobby Moore, il libero che sembra un gigante ma è agile come una gazzella; le punte Ball e Peters; la rivelazione Clarke. Sull'altro fronte, il «divino» Pelè e Jairzinho, Tostao e Carlos Alberto, Rivelino e Brito. Da Città del Messico, sono calati a Guadalajara tutti i tecnici del mondiale, l'occasione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire; c'è anche il nostro indimenticabile Nereo Rocco sudato, eccitato, entusiasta, che prima del match, nella piazza antistante lo Stadio, rovente come un forno, dice: «Gavemo el megio del fotbal mondial. Andemo a veder sti mona come el zoga, vogio veder se fan catenazzo...». No, non fecero catenaccio. Il Brasile parte come una furia, gli inglesi subiscono, il caldo li stronca quasi subito, vanno sotto e ci restano. E al quarto d'ora l'«evento». Jairzinho, che il terzino Cooper tenta invano di controllare, sgattaiola sulla destra leggero e imprendibile, sfiora la linea di fondo, traversa al centro. Pelè, una pantera, si alza e, a un metro dal gol, colpisce di testa, con incredibile violenza, schiacciando la palla a terra, nell'angolo più lontano da quello dove è piazzato Gordon Banks, che evidentemente si aspettava che Jairzinho stringesse al centro per concludere da solo. È una questione di centesimi di secondo: si vede Banks inarcarsi nell'aria, volare da palo a palo, colpire la palla col pugno mentre sta rimbalzando, violenta dal terreno verso l'alto, verso il fondo della rete. Ma Banks riesce ad alzarla oltre la traversa, la «parata impossibile» si stampa negli occhi dei settantamila dello Stadio, tutti si alzano in piedi a gridare, pazzi di ammirazione e di entusiasmo. Pelè, impietrito a un passo da Banks, improvvisamente si riscuote, abbraccia il portiere inglese, gli stringe la mano, poi torna verso il centrocampo scuotendo il capo, sembra quasi di sentirlo mormorare «Impossibile, era impossibile e lui lo ha fatto...».Vinse il Brasile, uno a zero, un gol stupendo di Jairzinho, al quarto d'ora della ripresa. Parte da centrocampo il gran macinatore di gioco Tostao, con Pelè sulla destra. Un rapido scambio, Jairzinho scatta in profondità, Pelè si avvicina all'area degli inglesi, potrebbe battere a rete. Ma no, forse «ha paura» di Gordon Banks, teme il sortilegio del portiere che gli ha parato un tiro imparabile, intravede Jairzinho sulla destra, un'ombra nera che scivola sull'erba come la pantera quando sta per scattare sulla preda, un tocco leggero, in verticale: Jairzinho si avventa, una rasoiata a filo d'erba il grande Gordon Banks che tenta l'uscita è folgorato in contropiede. L'Inghilterra è out, il Brasile sarà campione del mondo per la terza volta: a Guadalajara, i fortunati che c'erano hanno visto una delle più belle partite di tutta la storia del calcio mondiale. E, soprattutto, hanno visto «quella» parata di Gordon Banks, che non potrà scendere in campo nel quarto di finale contro la Germania di Gerd Muller per infortunio. Fu rimpiazzato da un oriundo italiano, Bonetti che incassa tre gol; Inghilterra addio: senza Gordon Banks è facile andare a rete contro i bianchi, che a Leon, in un pomeriggio dal cielo velato di nubi basse e grigie, lasciano sull'erba giallastra di un campo quasi di provincia (poco più di ventimila gli spettatori...) il titolo di campione del mondo. Lo raccoglierà sette giorni più tardi il grande Brasile nella maestosa cornice dell'Azteca frantumando i sogni di gloria dell'Italia di Ferruccio Valcareggi e della staffetta Mazzola-Rivera. Gordon Banks resta nella storia del calcio mondiale non soltanto per la prodezza di Guadalajara, si capisce. Fu campione del mondo nel '66, in Inghilterra, fu un portiere moderno, incredibilmente abile nelle uscite, acrobatico e scattante fra i pali, un atleta completo. Aveva uno strano sorriso cavallino, era un po' strabico, carattere estroverso ed allegro e fu molto sfortunato dopo tanta fortuna. Prima un grave incidente d'auto, poi una insidiosa malattia agli occhi, gli negarono quella lunga carriera che avrebbe sicuramente percorso, con la sua classe e la sua immensa esperienza. Giocò comunque, ben settantatré partite in nazionale, oltre cinquecento nel campionato inglese, fu campione del mondo, negò a Pelè un gol che sarebbe rimasto memorabile. Può bastare per riempire una vita... Era uno dei calciatori inglesi più famosi, una colonna insostituibile, via via del Chesterfield, del Leicester City, dello Stoke City, della nazionale bri-tannica. Eppure deve la sua popolarità mondiale a... Pelè, che lo chiamò ad una parata rimasta celebre nella storia del calcio, che anzi, appartiene ormai alla storia del gioco del calcio.

Il Perugia dei miracoli

Nel 1974 l'industriale Franco D'Attoma rileva un Perugia con un piede in serie C e sommerso dai debiti. Insieme a Castagner e Ramaccioni costruirà il più bel Grifone della storia raggiungendo il secondo posto nella stagione 1978/79...Era il 1974. Franco D'Attoma, prese in mano il calcio perugino. Entrò nel circo pallonaro quasi per rendere un favore alla sua città d' adozione. In Umbria era arrivato molti anni prima, per amore. Poi gli affari, in società con il cognato Leonardo Servadio, proprietario di una ditta di abbigliamento: la Se.gi. Quell'azienda diventò la Ellesse, la più grande realtà dell'abbigliamento sportivo italiano per diverso tempo. All'epoca il Perugia era sull'orlo del fallimento: affondava nei meandri della bassa classifica della serie B, con una società pesantemente in crisi. D'Attoma la trasformò in un modello: in pochi anni spinse una semplice vicenda calcistica di periferia ai limiti più estremi, fino alla lotta per lo scudetto. Ottenuta la salvezza, nel campionato 1973/74, iniziò la parabola verso l'alto. D' Attoma si definiva «ignorante di calcio» e si attorniò di gente esperta: Silvano Ramaccioni, innanzitutto, che diventerà poi il general manager del grande Milan. Accanto a D'Attoma e Ramaccioni, un allenatore giovanissimo: Ilario Castagner. I tre posero le basi per la costruzione del "Perugia dei miracoli" .La stagione successiva segnò l'inizio dell' avventura. Il triumvirato D'Attoma-Ramaccioni-Castagner mette su una squadra di ragazzi quasi sconosciuti, tra i quali Pierluigi (Alex) Frosio e Renato Curi. Campionato indimenticabile per squadra e città. Finisce con gli umbri primi: serie A, per la prima volta. Al primo vero anno di attività, D'Attoma era già entrato nella storia del Perugia. Conquistata la A, la società di D'Attoma punta a restarci il più a lungo possibile. La mentalità da industriale del presidente entra di prepotenza anche nel calcio. D'Attoma impone ai dirigenti di mantenersi sempre lontani dalle questioni tecniche: presente, ma a distanza; fiducioso nei confronti di chi il calcio lo gioca e la squaldra l'allena. Castagner chiede, D'Attoma risponde. Viene consolidato il gruppo di giocatori con l'arrivo di altri elementi. Qualche nome? Con il passare degli anni arriva gente che si chiama Aldo Agroppi, Walter Novellino e Salvatore Bagni. Missione compiuta: il Perugia in A ci resta e pianta le tende. Nel contempo il presidente continua a forgiare squadra e società a sua immagine e somiglianza. Risultato: i Grifoni sono la squadra-simpatia e anno dopo anno si consolidano in classifica con l'ottavo posto nel '76, il sesto nel '77 e anche nel '78. Poi il prodigio. Siamo nella stagione 1978/79, il Perugia di D'Attoma gioca un gran calcio: vince, pareggia, pareggia e vince. In precedenza non era infatti mai successo che una squadra disputasse un intero campionato di serie A senza perdere nemmeno una partita. A stabilire quel record (eguagliato soltanto tredici anni dopo dal Milan) provvidero le 11vittorie e i 19 pareggi messi insieme dal Perugia. Quarantuno punti in tutto, tre in meno del Milan di Liedholm, quello che festeggiò la stella del decimo scudetto e salutò la prima stagione di Franco Baresi e l'ultima di Gianni Rivera. Un risultato che ai giorni nostri spedirebbe i grifoni direttamente in Champions League. Non solo: il Perugia ebbe anche la difesa meno perforata del campionato con sole 16 reti subite. I punti di forza della retroguardia erano il capitano Frosio e Della Martira, mentre il regista di centrocampo era Vannini e sulla fascia destra imperversava Bagni. Otto gol li segno' proprio Bagni e nove Speggiorin, la prima punta. Il Perugia era una squadra compatta ed aggressiva, forse in anticipo sui tempi. Agli avversari non dava il tempo di pensare e badava soprattutto al possesso del pallone. Il miraggio dello scudetto sembrò materializzarsi a sei giornate dalla fine, quando il Milan, primo con soli due punti di vantaggio sui grifoni, andò a Perugia: tutta la città sognava l'aggancio, un entusiasmo indescrivibile. Gli umbri non potevano presentarsi al gran completo, erano infatti fuori uso due pedine fondamentali come Frosio e Vannini (cui Fedele ruppe una gamba in un Inter Perugia molto discusso), che saltarono quasi tutto il girone di ritorno. Finì in pareggio, com'era gia' successo a San Siro e i rossoneri poterono così veleggiare placidamente verso il primato. Il 'Perugia dei miracoli' termina secondo a tre punti dal Milan. Per la seconda volta, D'Attoma il conversanese entra nella storia: porta il Grifo in Europa. Ma non è finita. Il presidente deve ancora completare l'opera. Passa solo un anno e D'Attoma prende una decisione che apre la strada al nuovo modo di fare calcio: è l'inventore dello sponsor. Vuole portare Paolo Rossi a Perugia. E per farlo rompe gli schemi del mondo pallonaro. Propone al pastificio Ponte di finanziare la squadra, in cambio della presenza del marchio sulle maglie. La Federcalcio multa il Perugia: sulle tenute, dicono in Federazione, può comparire solo il logo dell'azienda che le fabbrica. E D'Attoma che fa? Lui, industriale dell'abbigliamento sportivo, s'inventa la linea "Ponte". Arrivano quattrini sonanti e il Perugia compra Pablito. E' il colpo che consacra don Franco signore di un'interà città. E' l'apice: il Perugia imbattuto può sommarsi al più grande cannoniere italiano, e il risultato non può essere che scudetto. Ma il Perugia sbarazzino della stagione precedente lascia il posto ad un Perugia patinato, forse pago, forse disorientato dal clamore del secondo posto e dall'arrivo di Paolo Rossi. In Coppa Uefa i grifoni superano il primo turno contro la Dinamo Zagabria ma crollano clamorosamente contro gli sconosciuti greci dell'Aris Salonnico (1-4 complessivo) mentre in campionato, persa la verginità dell'imbattibilità alla settima giornata (0-2 contro il Torino) navigano a fari spenti, lontani dalla vetta, concludendo al decimo posto. Non basta: lo scandalo calcioscomesse impazza, il Perugia è pesantemente coinvolto. Paolo Rossi dovrà scontare due anni di squalifica e gli umbri si ritrovano ad iniziare da -5 la stagione 1980/81, famosa anche per l'arrivo degli stranieri. Arriva il pseudo-centravanti Fortunato, che promette gol e spettacolo. Sarà un fantasma che non lascierà traccia. E arriva puntuale ed inevitabile la retrocessione, con il quindicesimo posto (e neanche senza la penalizzazione gli umbri si sarebbero salvati). Finisce un epoca da Paradiso ed inizia un lunghissimo Purgatorio....

Haiti...dal sogno ad un calcio che non c'è più

Per la prima volta nella loro storia, Haiti riuscì a qualificarsi alla fase finale dei Mondiali lasciando a casa il Messico. Nel match iniziale contro l'Italia, Sanon riuscì a violare Zoff dopo 1143 minuti di imbattibilità,erano i mondiali in Germania del 1974. I caraibici erano in festa dopo il gol che fece tremare l'Italia in Germania. Poi, sull'isola, mai più calcio. Ma oggi c' è ancora chi lotta perché il pallone abbia un futuro. Avevano previsto tutto, tranne la pioggia. Si erano preparati alle sgroppate di Facchetti, ai tocchi di Rivera e alle fucilate di Gigi Riva, li avevano studiati minuziosamente, per ore, tappati nell'ostello gelido di Monaco di Baviera. Non sapevano che un acquazzone li avrebbe messi in ginocchio. Ad Haiti l'erba è un bene prezioso. Philippe Vorbe, all'epoca  centrocampista, occhi, azzurri come il Caribe, spacca il silenzio con la sua voce tuonante: "Per mesi ci siamo allenati sulla terra battuta, con le scarpette dal fondo liscio. Degli azzurri conoscevamo ogni dettaglio ma, credetemi, rimanere in piedi o soltanto toccare il pallone sopra un prato fradicio era qualcosa di impossibile per la maggior parte di noi". Sono passati 37 anni da quel pomeriggio di giugno. Fu il giorno in cui una generazione di fenomeni chiamò mestamente il cambio. Facchetti, Rivera, Mazzola, Riva, Chinaglia: i vice-campioni del Mondo del Messico al loro capolinea. Perché ciò accadesse, si erano resi necessari undici dilettanti haitiani con le scarpe sbagliate e l'entusiasmo della prima volta. Mondiale di Germania, gara d' esordio: Italia Haiti. Alla fine del primo tempo il parziale è di 0-0. Ecco: visto dalla prospettiva di Port au Prince, con il vecchio porto inondato di sole e povertà, quel Mondiale sarebbe dovuto finire lì. Italia Haiti 0-0. Sarebbe stato meraviglioso e, chissà, forse la storia, non solo calcistica, avrebbe preso un'altra piega. Invece si tornò in campo: giusto in tempo per vedere Emmanuel "Manno" Sanon evadere con facilità dalla guardia di Luciano Spinosi per segnare il più celebrato dei gol mondiali: quello che mise fine al record d'imbattibilità di Zoff. A Port au Prince vi furono feste istantanee, caroselli per strada e anche un paio di morti, perché qui celebrazioni e dispute hanno la stessa colonna sonora: i colpi di arma da fuoco. Il caos durò sei minuti: il tempo necessario perché Rivera pareggiasse. Poi vennero l'autogol di Auguste e il gol di Anastasi. Italia Haiti 3-1. Avremmo dovuto farne almeno cinque. Ci eliminò l'Argentina per differenza reti. Haiti ci aveva fregati. Di quella formazione capace di conquistare quell'unica qualificazione ai Mondiali, Philippe Vorbe è l'unico che ancora vive in patria. Tutti gli altri sono scappati all'estero. Negli uffici cadenti della federazione locale, l'impresa di quegli uomini è ricordata con una fotocopia color seppia, attaccata a una parete. .Racconta Vorbe: "Perdemmo con l'Italia, ma nel primo tempo avevamo giocato meglio. Poi ce ne fecero sette i polacchi e quattro gli argentini. Eravamo bravi, ma con zero esperienza per quel livello. Di sicuro eravamo un gruppo forte che avrebbe potuto riprovarci nel '78. Ma non ci fu data la possibilità". Non solo. Per colpa di quella spedizione, il calcio fu cancellato dall'isola. Quella nazionale era stata voluta con forza e finanziata da Baby Doc in persona, il sanguinario dittatore che dominò il Paese per 15 anni. Fu lui a ottenere in modo sospetto di ospitare ad Haiti la fase finale della qualificazione al Mondiale. Raggiunto l'obiettivo, ottenuto anche grazie a qualche arbitraggio non proprio irreprensibile, Baby Doc regalò a ogni calciatore una Fiat 147 di seconda mano. Ma non permise loro di usarla: li spedì anzi in Germania con mesi di anticipo perché si preparassero alla grande impresa. Il tam tam mediatico era stato tale che si sospetta fosse servito a Baby Doc per sbarazzarsi dei suoi oppositori in totale tranquillità. Quasi 40 mila dissidenti trucidati, col Paese distratto dal grande evento. Poi però il Mondiale, a parte quei 45 minuti con l'Italia, fu una missione non all'altezza delle aspettative. Baby Doc chiuse così ogni risorsa al calcio. Antoine Tassy, il tecnico maniacale, aveva abitudini bizzarre. Non permetteva ai suoi di uscire dall'ostello, e impartiva allenamenti massacranti. Unica licenza: la visita di gruppo allo zoo, dove Vorbe, Sanon e il portiere Francillon firmarono estasiati i loro primi autografi."Ci scaricammo sul piano nervoso. Troppo lunga l'attesa, troppo forte la nostalgia di casa. Sapevamo che l'Italia era nervosa e preoccupata a causa del dualismo Mazzola-Rivera, però poi entrammo in campo già cotti".Al ritorno in patria li accolse l'ira di Baby Doc. In pochi anni, quasi tutti lasciarono il Paese per paura delle conseguenze. Sanon, il giustiziere di Zoff, trovò posto in Belgio, poi emigrò negli Usa. Il "gatto nero" Francillon provò la sorte proprio in Baviera, nel Monaco 1860 a 500 mila lire lorde al mese, pagandone 100 mila di affitto. Ma faceva troppo freddo e dopo due mesi il tecnico, di nome Merker, lo cacciò perché non parlava una parola di tedesco. Anche Francillon oggi vive negli Stati Uniti, vicino a Boston. Vorbe, l'unico mulatto di quella squadra, figlio di agiati imprenditori, non mollò. Giocò anche negli Usa, agli albori del soccer, assieme a Luis Cesar Menotti, poi tornò ad Haiti a farsi testimone di vent'anni di orrori. "Sono in contatto solo con alcuni elementi di quella squadra. Ci sentiamo ogni tanto, i ricordi di quell'Italia vengono fuori. Non potrò mai dimenticare Capello in quel primo tempo: gli azzurri erano incavolati, capivano che le cose non andavano come volevano loro. Lui me ne diceva di tutti i colori. Non capisco l'italiano, ma so che mi odiava perché quella non era una passeggiata". Oggi Philippe allena i giovani della sua squadra storica, il Violette AC. Era il tecnico della prima squadra, ma ha dato le dimissioni dopo aver subito un'aggressione in panchina da parte di indisturbati tifosi avversari. Preferisce i ragazzi. Li raduna ogni mattina alle sette in uno spiazzo spelacchiato poco distante dall'aeroporto, e trasmette loro l'entusiasmo di sempre. "Ci vorranno forse vent'anni per rivedere Haiti a un Mondiale. Purtroppo stiamo perdendo generazioni di potenziali buoni giocatori. Ma qui le priorità sono altre". Esiste un campionato di serie A, con partite quasi tutte giocate nell'unico stadio vero, a prova di esercito. La squadra da battere è il Don Bosco, fondata da immigrati italiani, la stessa di Manno Sanon. L'erba è sintetica, il pubblico scarso. Poi c'è la serie B che si gioca dove capita, se si trova il pallone e se l'arbitro è abbastanza sconsiderato da presentarsi. Di solito finisce in rissa. Nel Paese è forte la presenza dei Caschi Blu, che però non fanno molto per fermare la violenza che rende la capitale una piccola Baghdad. "Sembrerà retorica", dice Philippe, "ma qui il pallone può davvero salvare la vita a un sacco di ragazzi. Molti di loro hanno un'educazione poverissima, ma sanno di sicuro chi sono Totti, Beckham e Ronaldo. E, certamente, conoscono bene anche la nostra nazionale: l'unica che sia mai andata a un Mondiale"

Il "Real"Vicenza che stupì tutta Italia

1977/78: Gli uomini di G.B. Fabbri stupirono l'intera penisola con un calcio spettacolare mai visto giocare prima da una provinciale. Su tutti, l'esplosione di uno straordinario Paolo Rossi, che a fine stagione guadagnerà la Nazionale di Bearzot per i mondiali argentini. Al termine della stagione 1974/75 il Lanerossi Vicenza precipita in serie B, un evento, considerando la permanenza record di ben venti anni nella massima serie, il più delle volte condita da salvezze all'ultima giornata. Ma questa volta il miracolo atteso dai tifosi non c'è, la politica del compra-valorizza-vendi che tanto bene aveva svolto il presidente Giussy Farina non riesce a dare i propri frutti e la squadra che scende di categoria è ormai vecchia, svalorizzata e non più avezza al clima infernale della serie cadetta. A guidarla nella nuova ed inedita avventura, ancora il "filosofo" Scopigno, che aveva rilevato Puricelli nella stagione precedente non riuscendo però nell'impresa di salvare i biancorossi. L'inizio in serie B è stentato oltre ogni previsione, e per di più Scopigno dopo poche giornate si ammala gravemente ed è costretto a passare la mano a Cinesinho, che riuscirà a condurre il Lanerossi ad una sofferta salvezza, dopo aver intravisto lo spettro della serie C. La squadra dei sogni parte lunga, dalla Serie B della stagione '76-77, e nasce tra i mugugni di una piazza che attendeva nomi altisonanti dalla campagna acquisti e si trova di fronte un pugno di ragazzi e un tecnico dalle idee moderne e poco tranquillizzanti. Si chiama Giovan Battista Fabbri, il timoniere: uno che dei grandi nomi se ne infischia perché punta sul collettivo e che ha appena subito una bocciatura cadendo in C con il Piacenza. I nuovi acquisti del presidente Giussy Farina, che deve preoccuparsi anche di far quadrare il bilancio, si chiamano Paolo Rossi, Salvi, Cerilli. A Vicenza c'è malumore. Cerilli è noto solamente perchè ha fallito clamorosamente nell'Inter, dove in tanti, Fraizzoli in primis, lo vedevano come il nuovo Corso ma dove in due stagioni racimola solamente diciannove presenze per una sola rete. Salvi invece ha già 31 anni e una vita alle spalle con la maglia della Sampdoria, insomma non proprio un giovane in cerca di successo nei campi infuocati della serie B. Per finire, Paolo Rossi. Uno scarto della Juventus che anche a Como faceva panchina (sei presenze e zero reti la stagione 75/75) e che Boniperti riesce a dirottare in comproprietà a Vicenza. Non bastasse, il vecchio bomber Sandro Vitali si impenna, né combina un'altra delle sue e molla il ritiro e il calcio lasciando i tifosi nel panico. Sarà un inferno, prevedono le cassandre. Non bastasse, alla prima di campionato i biancorossi cedono per 2-0 di fronte ad un non irresistibile Avellino. E invece la stagione è d'oro: corroborato da tre vittorie consecutive, Fabbri indovina le potenzialità di Rossi, che durante la stagione si guadagna la convocazione nell'Under 21, e il suo Vicenza mette in mostra un gioco raffinato, moderno, con Paolino alla guida di un gruppo che non sbanda (quasi) mai. Nei momenti di stanchezza affiora nella tifoseria una punta di insofferenza, ma anche se la squadra a lungo andare concede sempre meno allo spettacolo, anche se finisce in affanno, la Serie A è riconquistata. A Vicenza esplode un carnevale fuori stagione, Corso Palladio è una bolgia di allegria ed entusiasmo. Paolo Rossi ha segnato 21 reti, è il capocannoniere della serie cadetta ed è già un pezzo pregiato per il mercato ma Farina lo convince (aumentandogli l'ingaggio, da 8 a 50 milioni) a restare per affrontare insieme la grande avventura della serie A. E il Real Vicenza di Gibì Fabbri si affaccia alla Serie A con le pile ancora cariche, l'adrenalina a mille e una dannata voglia di stupire il calcio italiano. Giussy Farina, che a fine stagione aveva annunciato il ritiro, non trova acquirenti per la sua creatura «costruita spendendo un pugno di lenticchie e che oggi ha quadruplicato il suo valore». Cosi il presidente fa marcia indietro e resta alla guida del gruppo. La stagione però parte malissimo, peggio della precedente. Un incolore 0-0 al Bentegodi per il derby veneto bagna il ritorno dei biancorossi in serie A, seguito da due sconfitte interne contro Inter e Torino. D'accordo, il calendario non è amico, anche perchè alla quarta di campionato i biancorossi ne buscano tre dal Milan a San Siro, ma anche in quella che avrebbe dovuto essere la gara del riscatto, al Menti contro un timidissimo Pescara, Il Vicenza fatica a contenere la gara sul pareggio. Tre sconfitte e due pareggi nelle prime cinque giornate. Farina si guarda intorno, interroga Fabbri sul da farsi per il mercato di riparazione autunnale e sull'attuale schema di gioco dei biancorossi, che nonostante le due punte (Rossi e Vincenzi) fa una fatica terribile a trovare la via della rete. La risposta sta nel campionato precedente: riprendere in mano gli schemi sbarazzini e arroganti utilizzati nell'anno della promozione e giocarsi li tutto per tutto a viso aperto anche in serie A. Contro-ordine è quindi il rimedio: da Monza in cambio di Vincenzi rientra in fretta e furia Cerilli, mai ambientato e fuori fase, e da Como arriva un certo Mario Guidetti, oscuro mediano con alle spalle una manciata di presenze  in serie A e pure non proprio giovanissimo. Fabbri a Bergamo per la sesta di campionato sa di giocarsi la panchina. Niente doppia punta, Rossi solo in avanti con Filippi e Cerilli sulle fasce, Faloppa e Salvi a centrocampo e Guidetti sulla mediana davanti alla difesa e pronto per improvvise proiezioni offensive. Dietro, Callioni Prestanti e Lelj, coperti dal magnifico e sfortunato libero Carrera (un'altra scommessa di G.B.), coprono l'ottimo Ernesto Galli in porta (uno dei pochi portieri a giocare ancora senza guanti...). Al 32' L'Atalanta si porta in vantaggio con Rocca ed a questo punto il Vicenza si trova di fronte ad un bivio. La strada giusta la indica Guidetti, che 6 minuti dopo pareggia i conti con un incursione delle sue. I ragazzi di Fabbri ci credono, il gioco si fa spumeggiante come nelle migliori giornate della stagione precedente, Rossi al 46' porta in vantaggio i suoi e al 51' addirittura è 3-1 ancora Guidetti. Finirà 4-2 con un apoteosi biancorossa e la ferma convinzione tra i giocatori che anche in serie A c'è posto per loro. Convinzione che la domenica successiva si consolida quando al Menti arriva la Lazio: 2-1 finale con ancora Rossi in rete e stoccata finale dello stopper Prestanti. La stampa inizia ad accorgersi dell'armata di Fabbri, Paolo Rossi inizia a guadagnarsi le prime pagine dei giornali, Fiorentina e Roma sono castigate rispettivamente per 3-1 e 4-3 con due doppiette di Paolino e tanto, tanto bel gioco. Contro la Roma sono addirittura fuochi d'artificio con Ernesto Galli che al 90' para un rigore all'ex Agostino Di Bartolomei consentendo al Lanerossi di portarsi al terzo posto in classifica. Piccolo break allo Zaccheria con un tenace Foggia (1-1 finale) e via ancora con altre due vittorie (Bologna e Genoa). Al termine della dodicesima giornata la classifica recita: Milan  e Juventus 17 punti, Lanerossi Vicenza 16 punti. Clamoroso. Fabbri è guardato con invidia dai suoi colleghi: come può una provinciale, piena fra l'altro di scarti di altre società, essere così sfrontata, votata all'attacco in qualsiasi campo d'Italia? La piccola rivoluzione del Vicenza sta tutta nella convinzione che G.B. riesce ad infondere ai suoi, giocarsela tutta sempre e dovunque, costruire e non distruggere. Dispone inoltre del miglior esterno del campionato, un Roberto Filippi già trentenne, con alle spalle 3 gettoni con il Bologna nel 72/73 e poi tanta serie C, che per la prima volta, sotto la guida di Fabbri, si dimostra all'altezza della Serie A e regala alla squadra idee precise, rabbia agonistica, chilometri e sudore, continuità. Ma il vero crack è lui, Paolo Rossi, già idolo di tutti, già fenomeno mediatico nonostante la sua estrema riservatezza e il suo volto pulito da bravo ragazzo. Nel girone di ritorno il Lanerossi non è più una sorpresa. Tutti si aspettano il crollo dei ragazzi di Fabbri, che invece danno dimostrazione di grande maturità, imparando a gestire meglio le partite e tirando il freno a mano quando ce n'è bisogno. Alla 28a un clamoroso 4-1 al Napoli (doppietta di Faloppa) mantiene il Vicenza a quattro punti dalla Juve che va facile sul Pescara (2-0) e mette praticamente la parola fine al campionato.La domenica successiva, 3-1 al Perugia (ancora due gol di Rossi) e gran finale al Comunale di Torino dove la Juventus festeggia lo scudetto dando vita assieme agli uomini di G.B. ad un match spettacolare. Due volte in vantaggio con Bettega e Boninsegna, la Signora si fa raggiungere in entrambe le occasioni, prima della stoccata decisiva di Penna Bianca per il 3-2 finale. Sugli allori, proprio Bettega e Rossi, che saranno protagonisti assieme neanche un mese dopo in Argentina con la Nazionale di Bearzot. Il campionato di Serie A '77-78 è finito e da queste parti, ma non solo, passerà alla storia. Rossi, definitivamente esaltato dal gioco di Fabbri, va oltre i suoi limiti: 21 ne aveva segnate in Serie B, arriva a 24 nel campionato dei "grandi", conquistando il titolo di re dei marcatori e la maglia azzurra nella Nazionale di Bearzot. La squadra non arriva mai a minacciare la Juventus Campione d'Italia, ma chiude la stagione dei sogni al secondo posto (che oggi varrebbe Champions League), miglior piazzamento della sua storia. Grazie a Gibì (vincitore del Seminatore d'Oro), grazie ai gol di Rossi, grazie al collettivo. E anche grazie a un piccolo grande uomo che diventa l'anima del centrocampo biancorosso, quel Roberto Filippi che risulterà eletto come miglior giocatore del campionato. Giussy Farina è alle stelle e il suo entusiasmo sta scritto sulla busta con cui riscatta Paolo Rossi dalla Juve con un'offerta di due miliardi, seicento milioni e cinquecentodiecimila lire. Una pazzia d'amore, che costerà molto cara. Dirà Giussy Farina: «Mi vergogno, ma non potevo farne a meno: per vent’anni il Vicenza ha vissuto degli avanzi. E poi lo sport è come l’arte, e Paolo è la Gioconda del nostro calcio...» Nonostante le partenze (per coprire li riscatto di Rossi) di due colonne come Lelj (Fiorentina) e soprattutto Filippi (Napoli), Gibì Fabbri mette in guardia un ambiente in euforia, ma nessuno l'ascolta. Così, dopo la stagione della gloria arriva quella del dolore. Dolore anche fisico, come quello di Paolo Rossi, ora diventato Pablito dopo l'avventura in Argentina. Contro il Dukla in Coppa Uefa il ceco Macela lo mette fuori uso per il match di ritorno (con conseguente eliminazione) e per le prime giornate del campionato 78/79. Il Lanerossi stenta, senza Pablito e senza le sgroppate di Filippi sembra perso, inerme. All'ottava giornata è ultimo in classifica assieme al Verona. Il rientro di Rossi e l'assestamento progressivo della squadra rimettono le cose a posto, a tratti si rivede lo spettacolare gioco della stagione precedente tanto che a sei giornate dal termine sono proprio sei i punti di vantaggio sulla terz'ultima. All'orizzonte una salvezza tranquilla ed onorevole, quindi. Imprevedibile, arriva invece il crollo, nervoso e fisico, degli uomini di G.B. Quattro sconfitte consecutive fanno ricadere il Vicenza nelle zone basse e la squadra si fa trovare impreparata e incapace di ritrovare le energie psicofisiche per evitare il baratro. A Bergamo (dove l'anno precedente era iniziata la svolta...) nell'ultima giornata uno spento Vicenza si fa travolgere dall'Atalanta, ed è di nuovo serie B. Un ciclo si è concluso, rimarrà invece per sempre la favola del Real Vicenza.

Mantova: il "Piccolo Brasile"

Quella che iniziò a partire dal 1955-56 fu una vera e propria favola calcistica che nel giro di pochi anni proiettò la squadra biancorossa dall'anonimato della Quarta serie fino ai fasti della serie A. Il primo anno, a Mantova arriva Fabbri. E’ un ann è di assestamento: la squadra è del tutto rinnovata e si punta sui giovani della provincia. Così dal Governolo arrivano William Negri e Veneri, dal S. Benedetto Torelli e quasi tutto il vivaio di una squadretta cittadina, il Sant'Egidio, con i vari Dante Micheli, Russo, Longhi e Paccini. Dopo qualche sconfitta iniziale, la squadra inizia a carburare e finisce il torneo in crescendo vincendo (spesso a suon di gol) in casa e fuori: il terzo posto conclusivo è tutt'altro che male per una formazione "fatta in casa". L'anno dopo comincia la scalata: il Mantova, che nel frattempo ha trovato l'abbinamento pubblicitario con la ditta di petroli OZO. Alle gesta del "Piccolo Brasile" (venne così chiamato il Mantova da un giornale di Lucca al termine dell'ennesima, larga vittoria) in particolare è legato il nome di Edmondo Fabbri, il popolare "Omino di Castelbolognese" che dalla panchina trasmise a questi giovani e baldanzosi ragazzi in maglia virgiliana la voglia ed il carattere per scrivere alcune pagine d'oro del calcio mantovano. Altro "deus ex machina" di questa squadra straordinaria fu Italo Allodi, giunto a Mantova da Suzzara (sua città d'adozione) nelle vesti di calciatore ed affermatosi poi come il primo, vero general manager italiano. Fabbri poi andò alla Nazionale, Allodi disegnò la grande Inter di Moratti: con queste basi dunque il Mantova entrò di diritto nell'èlite del calcio, salvo poi, purtroppo, compiere il cammino inverso qualche anno dopo.La raffineria dello sponsor è sorta alle porte della città (la squadra cambia i colori sociali da biancazzurri a biancorossi), e deve arrivare almeno nei primi sei per garantirsi l'accesso alla Quarta serie d'Eccellenza. Alla fine arriverà secondo, ottenendo ben 9 successi in trasferta e caratterizzandosi come formazione gagliarda, tenace, mai doma ed anche spettacolare: il tutto nel puro spirito di Edmondo Fabbri. La squadra che nel 1957-58 partecipa alla Quarta serie di Eccellenza è opera di Italo Allodi, passato dal campo alla scrivania: è proprio lui infatti che acquista elementi con un misto di grinta e tecnica che faranno fare al Mantova il salto di qualità. Sono i vari Giagnoni , destinato a diventare "la bandiera" del Mantova, e l'attaccante Fantini (entrambi dal Fabbrico), poi Bibolini, Martinelli, Cuoghi, Recagli, Giavara, Ravelli e Vaccari. Fabbri riuscirà ad amalgamare una squadra che vincerà il campionato in carrozza, perdendo solo due volte, ottenendo la seconda promozione consecutiva ed approdando in C. Per il cui campionato, nel 1958-59, il Mantova fece solo due innesti nel gruppo affiatato. Fu, questo, un campionato epico, forse in assoluto il più bello e felice dal punto di vista spettacolare ed emotivo della storia biancorossa. Malgrado la presenza di tanti "squadroni", il Mantova si calò subito con grande autorità nella categoria vincendo e convincendo. Alcuni risultati? 8-0 col Legnano, 2-0 a Lucca (nasce il "Piccolo Brasile"), 3-0 a Vercelli, 3-1 a Piacenza, 3-1 a Cremona. L'unica squadra che tiene il passo del Mantova, anzi lo precede di 3 punti, è il Siena, dove i virgiliani devono recarsi in una delle ultime gare della stagione: ebbene, il Mantova vinse 2-0 con gol di Turatti e Recagni ed alla fine del campionato arrivò a pari punti proprio con i toscani a quota 58. Si rese dunque necessario uno spareggio in campo neutro, a Genova, il 28 giugno 1959: e qui il Piccolo Brasile compì il suo capolavoro. Dopo pochi minuti di gara infatti la squadra di Fabbri rimase con un uomo in meno per infortunio di Cadè (a quel tempo non c'erano sostituzioni), ma l'inferiorità numerica fu sopperita da una prestazione tutto cuore e grinta: premiata nel finale dal gol di Fantini che voleva dire serie B. Ormai il Mantova fa notizia e l'estate successiva molti giocatori (Fantini, Micheli, Recagni, Bibolini, Turatti), richiesti, fanno le valigie. Il torneo di serie B comincia male ma la squadra biancorossa a poco a poco si riorganizza ed ottiene successi di prestigio come a Torino, a Venezia, a Brescia ed a Modena: il quinto posto finale è tutt'altro che male per una neopromossa. Ed il 1960-61, in pieno miracolo economico, fu l'apoteosi per l'OZO Mantova, per Edmondo Fabbri e per la sua pattuglia di ragazzi: squadra parzialmente rinnovata ma intatta nello spirito e nella grinta. Torneo difficile, nel quale però il Mantova si esalta ed ottiene successi di rilievo come il 4-2 di Genova coi rossoblu e mantiene un cammino regolare: solo il Venezia arriva davanti ai biancorossi, forte di una contestata vittoria (3-2) casalinga. Ma la sicurezza matematica della promozione in A avviene in casa col Brescia (2-0), alla terzultima gara, in mezzo ad un tripudio popolare e tutti i protagonisti portati in trionfo.E' SERIE A!Mantova dunque in serie A: la società, presieduta da Peppe Nuvolari, provvede all'ingaggio degli stranieri. Dal Santos arriva Angelo Benedicto Sormani, vice di Pelè; dalla Svizzera Tony Alleman, quindi un altro brasiliano, un certo Nelsinho, primo bidone della storia biancorossa. Il debutto avviene nel settembre 1961, nemmeno farlo apposta, sul campo della Juventus che schierava tra gli altri Sivori, Charles e compagnia bella. È proprio Charles a realizzare per i bianconeri ma poco prima del termine Alleman firma l' 1-1. Un debutto coi fiocchi e controfiocchi. Alla sua prima esperienza nel calcio che conta, il Mantova chiude al 9° posto con 32 punti. Qualcosa però è andato deteriorandosi: il rapporto con Fabbri si incrina e le dispute tra il tecnico ed il presidente Nuvolari spaccano in due la città. Al ristorante Da Gastone, rettore magnifico dell'Università del calcio, ci sono i fabbriani ad oltranza; al Bar Sociale, capitanati dall'avv. Antonio Fario, gli anti-omino di Castelbolognese. La Gazzetta di Mantova, che con l'allora direttore Amadei non è tenera nei confronti del tecnico, viene bruciata in piazza e da un ultraleggero affittato per l'occasione piovono volantini che invitano appunto Nuvolari e la sua cricca a lasciare la società. Si perpetua la sfida tra Guelfi e Ghibellini. Dopo sette anni comunque Fabbri lascia Mantova: un carattere mai facile il suo, ma decisamente un grandissimo allenatore. Al suo posto arriva Nandor Hidegkuti, mister gentiluomo, ex della grande Ungheria; non c'è più Nelsinho, al suo posto il rubicondo e pacioccone tedesco Geiger, grande esperto di birra. Il Mantova si salva anche grazie a Giagnoni e altri anziani della squadra che prendono in mano le redini della situazione. Via Hidegkuti, nel 1963-64 ecco Cina Bonizzoni, personaggio singolare, brav'uomo che si trova a gestire una squadra che non ha più Sormani ceduto alla Roma per l'allora astronomica cifra di mezzo miliardo, e Negri passato al Bologna col quale conquisterà lo scudetto tricolore dopo spareggio con l'Inter. In compenso arrivano Karl Heinz Schnellinger, battezzato Schilingi per comodità linguistica, lo svedese Jonsson e un certo Dino Zoff, portiere friulano di belle speranze. In più c'è Nicolè, bomber prodigio poi scaduto per problemi di dieta (singolare la cura dimagrante effettuata sotto il controllo del masseur Brindani: dopo un mese il massaggiatore biancorosso era diminuito di 3 kg., Nicolè ne aveva aggiunti altri due al suo poco invidiabile peso forma). Schilingi, quasi da solo, mantiene la squadra in A. L'anno successivo sulla panchina c'è l'argentino Oscar Montez, tipo quantomeno singolare (eufemismo), sostituito nell'ordine da Gianni Bonanno e infine da Mari. Dai Montez ai Mari si potrebbe dire, ma il Mantova retrocede ugualmente in serie B. Da alcuni mesi l'ing. Sergio Previdi è presidente mentre alla ribalta si è già affacciato un quistellese di Milano, l'industriale Andrea Zenesini, titolare dell'Europhon. Cadè è il nuovo allenatore della stagione 1965-66, il Mantova si classifica al terzo posto e ritorna subito in serie A. Nell'ultima gara del torneo 1966-67 il Mantova batte l'Inter al Martelli togliendole lo scudetto. Ci sono 25 mila spettatori, la metà dei quali di fede nerazzurra, che assistono come impietriti alla papera del portiere Sarti che si lascia sfuggire il tiro cross di Gegè Di Giacomo. Da parte mantovana non c'era assolutamente la volontà di vincere, ne erano convinti anche i nerazzurri; invece è andata proprio così, con lo scudetto alla Juventus e tanta rabbia, durata poi per anni, nell'animo degli interisti nei confronti del Mantova. L'anno successivo (1967-68) di nuovo la caduta in B ed alla guida della squadra per la pronta risalita viene chiamato Mannocci: costui, che non è un cuor di leone, si lascia sfuggire di mano la situazione e Zenesini, che ha trasformato il Mantova in S.p.a. e ne ha assunto la presidenza, chiama Giagnoni. Il Giagno, che non ha ancora il colbacco, salva la squadra e l'anno dopo arriva quarto perdendo, per un solo punto, la promozione in serie A. L'appuntamento è rinviato di una sola stagione: nel 1970-71 il Mantova vince il campionato di B e ritorna trionfalmente in serie A. Siamo al 1971, il Mantova, di Zenesini, si accinge a un campionato "di centroclassifica ", forte di uomini importanti in tutti i settori: gli esperti Bacher e Micheli in difesa, i raffinati Dell'Angelo e Maddè a centrocampo, la guizzante ala Carelli e il baby Sauro Petrini in attacco. Allenatore, Renato Lucchi. La partenza è da brividi: un punto nelle prime quattro partite, le avvisaglie di una stagione che, soprattutto per l'inguaribile sterilità offensiva, diventa subito in salita. Dopo quattordici giornate, con sette punti al penultimo posto in classifica, Lucchi viene silurato e sostituito con un altro importante "ex" degli anni d'oro: Renzo Uzzecchini. Scontato un avvio disastroso, il nuovo "manico" risolleva in parte la squadra, ma non riesce a sottrarla all'abbraccio mortale della penultima piazza, che abbandona, paradossalmente, solo all'ultimo turno, quando appaia il Catanzaro a un solo punto dal Verona e dalla salvezza. Nessuno immagina che sia il principio della fine: invece il Mantova ripercorre alla rovescia la magica arrampicata di dieci anni prima e in soli due anni si ritrova in C.La parabola del "Piccolo Brasile" termina qui, tra le gradinate semivuote del Martelli E in attesa di un nuovo miracolo...