Il Padova di Nereo Rocco e la leggenda del santo catenaccio

Stagione 1957-58: raggiunge il suo apice il Padova di Nereo Rocco che nel fortino dell'Appiani conquistò vette di gioco e di classifica mai più raggiunte nella sua storia...Quando Nereo Rocco arrivò a Padova, la sua stella era un po' offuscata. Dopo gli exploit a Trieste (un secondo posto, nel '47-48, e due ottavi), era tornato a occuparsi della macelleria di famiglia, ma non aveva saputo resistere al richiamo del calcio. Il Treviso, in B, gli aveva chiesto aiuto e lui era accorso, schierando di nuovo il libero, Chiodi, e ottenendo un triennio di buoni risultati con una squadra di limitato valore tecnico: «Praticavamo un gioco di cui nessuno capiva niente» avrebbe raccontato poi, «per due anni non perdemmo in casa. Mazza della Spal ci insultava brontolando che eravamo catenacciari, però anche lui, quando la sua squadra affrontava gli squadroni, tentava di adeguarsi. Dico la verità: quando mi urlavano catenacciaro, mi fischiavano, mi coprivano di insulti accompagnati dagli immancabili sputi, avevo crisi di sconforto. Ma sempre i miei giocatori mi erano vicini incoraggiandomi a perseverare. Frossi a Monza aveva inventato il suo attacco a "M", ma a Treviso beccò un sonante 4-0. Intanto l'Inter di Foni utilizzava Blason come libero con Giovannini stopper (e Armano ala tornante) e vinceva il campionato con vistoso anticipo. Foni diceva di aver preso quel modulo dal Verrou elvetico per non ammettere il plagio. Il fatto è che il "gioco dei poveri" conveniva a tutti, altro che fischi e sputi. Ho raccolto tanti sputi a San Siro da fare schifo. Un giorno viene negli spogliatoi Italo Allodi e ne rimane talmente colpito da inviarmi, il giorno dopo, un impermeabile nuovo, accompagnato da una lettera di scuse di Angelo Moratti. Si vede che facevo veramente pena». Nel 1953 era tornato alla Triestina, ma gli aveva detto male: il 21 febbraio 1954, dopo un umiliante 0-6 in casa contro il Milan, era stato esonerato. Pochi giorni dopo, il 10 marzo, all'indomani di un pareggio interno col Cagliari, il presidente di una squadra di B, Bruno Pollazzi del Padova, l'aveva contattato per sostituire il silurato tecnico Rava, sordo alle richieste di cambiare modulo per salvare la baracca. Allora le norme erano meno rigide delle attuali e gli allenatori non godevano praticamente di garanzie contrattuali. Insomma, quando Pollazzi gli chiese di tentare il salvataggio dei pericolanti biancoscudati, penultimi in classifica, Rocco era disoccupato e in forte tentazione di tornare definitivamente a occuparsi del fiorente commercio di carni. La passione per il calcio ebbe una volta di più la meglio. «Se mi date la casa, più un tanto al mese e mi lasciate tornare a Trieste tutte le settimane senza creare problemi, posso anche venire a tentare di salvare la barca. Però non prometto niente; per il futuro vedremo». L'operazione, tutt'altro che facile, andò a buon fine, complice la penalizzazione di cinque punti inflitta al Piombino dal giudice sportivo. In undici partite, Rocco conquistò dodici punti, in perfetta media-salvezza. A quel punto il presidente Pollazzi gli offrì la conferma, col programma di giocare la stagione successiva un torneo tranquillo. Con una squadra valutata da metà classifica, Rocco sbozzò un piccolo capolavoro: da 40 reti subite si passò a 27 e alla fine della stagione 1954-55 il Padova tornava a sorpresa in Serie A, piazzandosi secondo alle spalle del Lanerossi Vicenza. Nelle due stagioni successive, il binomio Rocco-Pollazzi raggiunse un'intesa quasi perfetta. Il tecnico d'estate indicava nomi alla portata delle casse tutt'altro che floride della società e il presidente era ben contento di ingaggiare giocatori dati per finiti o giovani mai sbocciati. Dal Verona, dove era decaduto dopo i brevi fasti interisti, arrivò Blason, l'uomo chiave che Rocco voleva per riprodurre nella massima serie il suo Catenaccio. Nel 1956 la salvezza fu abbondante: ottavo posto, davanti addirittura alla Juventus. Nel 1957, undicesimo, ma con il lancio di un centravanti di diciassette anni, Nicolé, subito conteso dagli squadroni al mercato. L'estate di quell'anno, il 1957, a Padova fu addirittura torrida. Rocco aveva fiuto e vista lunga, come sempre: suggerì di accettare le offerte juventine per il baby d'oro, ma in cambio, oltre a un robusto pacco di milioni, pretese Kurt Hamrin, l'aletta svedese bloccato al suo primo volo da un pesante infortunio. E poi, chiese un altro... ex grande, Sergio Brighenti, il centravanti della Triestina, colà decaduto, anche per problemi fisici, dopo i primi passi tra i grandi nell'Inter di Foni. Due rottami, commentarono i più benevoli tra i contestatori, inconsolabili per la partenza del "gioiello" Nicole, nonché del big Sarti e del capocannoniere Bonistalli. Di mezzo, c'era pure un processo per illecito (per una partita col Legnano di due anni prima), con l'ombra di una retrocessione a tavolino poi spazzata via dal giudice sportivo. Insomma, il commendator Bruno Pollazzi diede le dimissioni, sostituito dal vicepresidente Vescovi. Le avrebbe ritirate, tornando al suo posto, solo dopo l'avvio del torneo. Quando fu chiaro a tutti che Rocco aveva costruito tra le macerie estive una squadra-miracolo...Davanti all'ottimo portiere Pin, Blason rinnovava gli antichi splendori interisti, fungendo da libero spazzatutto. Si era affinato col tempo ed era in grado con lunghi traversoni di lanciare direttamente il contropiede per lo scattante Hamrin o il poderoso Brighenti. Pison, Azzini e Sca-gnellato erano i tre "mastini", destinati a mordere i tre attaccanti avversari. Rocco li aveva voluti così, i suoi magnifici quattro: autentici gladiatori, fisicamente prestanti e pronti a chiudere senza tanti complimenti. Il Padova era "la squadra dei panzer". Davanti al munito bunker, fungeva da regista l'ombroso argentino Humberto Rosa, altro figlio di una geniale intuizione di Rocco, che l'aveva raccolto al Padova dopo il fiasco come attaccante nella Sampdoria, traendone le misure del grande costruttore di gioco. Rosa era tecnicamente validissimo, sapeva gestire perfettamente i tempi della manovra e possedeva la battuta lunga e precisa capace di attivare i formidabili contropiedisti. A sostenerne l'azione, i due generosi laterali Mari e Moro, due stantuffi instancabili, sempre pronti a dare una mano in copertura. Boscolo fungeva da ala di raccordo sulla sinistra; in pratica, un tornante abile a potenziare la fase di contenimento del centrocampo. Tanto, in avanti Rocco disponeva di due autentici satanassi. Hamrin, recuperata la perfetta efficienza fisica, era immarcabile. Rapidissimo, leggero, guizzante, volava verso il gol come l'"uccellino" che poi sarebbe diventato per tutti i tifosi d'Italia. Brighenti era rapido, scaltro, potente, una vera macchina da gol che perfettamente completava, al centro dell'area, i voli sulla fascia del compagno di linea svedese. Il Catenaccio raggiungeva così vette di gioco autentiche, contraddicendo i suoi ottusi assertori. Un avvio fragoroso, una parentesi mediocre, poi una lunga serie di straordinari risultati fecero del Padova la squadra rivelazione del campionato. Il 2 febbraio 1958 il Genoa veniva travolto all'Appiani da un tennistico 6-3 (primo tempo: 5-0), con quattro gol di Hamrin, segnando l'ingresso dei biancoscudati nel ristretto novero delle grandi del campionato. Alla fine, fu terzo posto, il miglior risultato di sempre della storia biancoscudata. Parlare di squadra utilitaristica diventava quantomeno azzardato. Al punto che la stagione successiva, quando Rocco in pratica fece il bis, conquistando il settimo posto con una squadra privata di Hamrin (sostituito dall'ottimo Mariani), agli osteggiatori del Catenaccio non restò che trasfigurare la realtà, individuando addirittura un diverso modulo, come già accennato. Il miracolo Padova non fu una meteora. Nel 1960 Rocco portò i suoi al quinto posto, nel 1961, senza più il bomber Brighenti (39 gol nelle ultime due stagioni) al sesto. Poi, suonarono le sirene milaniste e Paròn Nereo emigrò a dimostrare di poter condurre a grandi risultati anche un club metropolitano. Là avrebbe ritoccato la formula vincente, schierando Cesare Maldini libero fluidificante. Per il Padova invece senza Rocco la caduta fu verticale. Nel 1962, per la prima volta senza il Paron, i biancoscudati precipitavano in B. Sarebbero tornati a rivedere le stelle della massima serie solo trentadue anni dopo, nel 1994.

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