Pagine

1981: Morire di calcio a San Benedetto del Tronto

Era tutto pronto per la festa promozione della Sambenedettese. Ai rossoblù di Nedo Sonetti sarebbe bastato pareggiare, contro il già spacciato Matera, per approdare in serie B. Domenica 7 giugno 1981 allo stadio “Fratelli Ballarin” c’era il pienone: oltre dodicimila spettatori. Nella formazione marchigiana spiccavano il giovanissimo portiere Walter Zenga, di scuola interista, Cagni e Speggiorin. L’entusiasmo del pubblico di casa aveva portato allo stadio circa sette quintali di piccole strisce di carta da giornale da utilizzare come coreografia per la festa della terza promozione in B nella storia della Sambenedettese. I tifosi si erano dati da fare sin dalla mattina. Allo stadio c’era una nutrita rappresentanza di donne, tifosissime della Samb. Dal Chicco d’Oro partì il torpedone verso il “Ballarin”. Un solo grido lungo il tragitto: Samba, Samba. La Curva Sud, la Fossa dei Leoni, risultò gremita all’inverosimile. Dopo un anno, il ritorno in B è vicinissimo. Lo speaker dello stadio, il mitico Sciarretta, era già in posizione. Clima ideale per un giorno di festa sportiva.  Poco prima del calcio d’inizio, si sviluppò un incendio proprio in curva sud. La notevole quantità di carta agevolò le fiamme e 3.500 persone rimasero intrappolate. Le chiavi dei cancelli d’emergenza non vennero subito trovate. Scattò un fuggi fuggi generale, la calca fu tremenda e parecchie persone finirono proprio dentro l’incendio, inghiottiti dalle fiamme. Un quarto d’ora di panico, poi le fiamme furono domate mentre i feriti venivano trasportati in ospedale con ambulanze, taxi e auto private. Lo speaker dello stadio cominciò una tragica sequela di annunci: uomini, donne e giovani erano attesi all’uscita dalla tribuna. Gli occupanti del settore Distinti capirono subito la gravità dell’accaduto. I giocatori erano entrati in campo in anticipo per il lancio dei fiori al pubblico e per i festeggiamenti preliminari. L’arbitro dell’incontro, il promettente bolognese Paolo Tubertini, si stava apprestando a lanciare la monetina con i due capitani per la scelta del campo quando, improvvisamente, si alzò un evidente falò dalla curva sud. “Secondo me erano stati venduti molti biglietti, – aggiunse l’arbitro dell’incontro – il pubblico era stipatissimo, uno spettatore sopra l’altro”. E poi, quintali di carta per trarne coriandoli e supporti coreografici ed un caldo notevole.       Fu, forse, lo scoppio di un bengala a scatenare l’apocalisse, o un banale fiammifero. L’incendio divampò in un batter d’occhio. Qualcuno pensò ad un atto terroristico, una bomba probabilmente. Arbitro e giocatori si avvicinarono alla curva incendiata e la scena fu agghiacciante: due donne erano diventate torce umane, alcuni cercavano di sfuggire alle fiamme buttandosi oltre il filo spinato, verso il rettangolo di gioco. Alcuni furono salvati dalla rete di recinzione che attutì l’impatto con il terreno al momento del salto. Un bambino di dieci anni fu salvato dal gesto eroico di un adulto che, prima di allontanarsi dal rogo, riuscì a liberare il bambino, ormai destinato a morte sicura.“Chiesi ai dirigenti locali dove fosse la chiave del cancelletto che separa la gradinata dal campo, - aggiunse l’arbitro Tubertini – ma questa chiave non saltava fuori. L’acqua è arrivata con un serio ritardo, il bocchettone presso la curva non funzionava e si è dovuto usare quello del centro del campo”. Solo la fortuna evitò un bilancio peggiore in termini di morti e feriti. Il Messaggero, nelle pagine dell’edizione marchigiana, parlò di soccorsi tempestivi.  Con sedici minuti di ritardo, Tubertini fischiò il calcio d’inizio. “Le due squadre erano d’accordo a giocare, anche i dirigenti”, affermò ai giornali il direttore di gara. La scelta di disputare l’incontro, come avverrà quattro anni dopo in una ancor più tragica giornata, quella dell’Heysel ’85, fu motivata da ragioni di ordine pubblico. Non far disputare la partita poteva creare ulteriori tensioni. In campo regnava un’atmosfera mesta, i giocatori sembravano più attenti a captare novità sulle condizioni dei feriti che a fare la partita. Con lo 0-0 finale la Sambenedettese ottenne la promozione in B ma nessuno aveva voglia di festeggiare. Un pomeriggio di festa si trasformò in tragedia ed il dettaglio calcistico non contava più. Tredici persone rimasero gravemente ustionate. Per loro fu necessario il trasferimento nei centri grandi ustionati sparsi per l’Italia: alcuni a Roma, altri a Cesena, Padova e Brindisi. Due ragazze di San Benedetto del Tronto persero la vita: Maria Teresa Napoleoni, 23 anni, deceduta all’alba del 13 giugno ’81, e Carla Bisirri, 21 anni, la cui agonia si protrasse per altri quattro giorni. Entrambe morirono nel “Centro Grandi Ustioni” dell'Ospedale San Eugenio di Roma dove erano state ricoverate con ustioni del I, II e III grado sul 70% del corpo. La Napoleoni lavorava come segretaria in una ditta di calzature, la Pisirri aveva appena iniziato l’attività di parrucchiera. Il bilancio finale del rogo del Ballarin fu di 2 morti, 64 ustionati (undici dei quali gravi) ed un centinaio di feriti. La più grande tragedia accaduta in uno stadio italiano di calcio. Una tragedia che portò, poco meno di otto anni dopo, alla condanna, tra gli altri, del presidente della Sambenedettese e di un commissario di polizia. Il Comune, proprietario dello stadio, fu condannato, dai giudici del Tribunale di Ascoli Piceno, a risarcire i danni alle famiglie delle vittime. Un monito, per il futuro, ad avere grande attenzione verso la sicurezza degli spettatori negli stadi. Il sindaco di San Benedetto tuonò contro la sentenza poiché, all’epoca dei fatti, il Comune era proprietario dello stadio ma con la gestione affidata alla società calcistica, ad eccezione della manutenzione del manto erboso. Dei sedici imputati, quattordici vennero giudicati colpevoli di incendio ed omicidio colposo I vertici della Lega Calcio, nel commentare la sentenza dei giudici, parlarono di “forzatura”. Il vicepresidente juventino Chiusano chiarì che la condanna al presidente della Samb non poteva scaturire da un’eventuale responsabilità oggettiva che, pur riconosciuta dalla giustizia sportiva, era anticostituzionale in ambito penale. Di quel 7 giugno ’81 c’è chi conserva, ancora oggi, la bandiera, il drappo portato allo stadio quel giorno per festeggiare la promozione della sua squadra del cuore e subito avvolto per sfuggire alle fiamme e ad una fine atroce in un pomeriggio che doveva essere di gioia e spensieratezza e che si trasformò in un giorno di morte.

Cienciano del Cusco...un miracolo in Perù

Quando, al minuto 32 della ripresa, Carlos Lugo prende la palla e la posiziona nel punto esatto in cui il pessimo arbitro messicano ha da poco fischiato un calcio di punizione a favore di una sconosciuta squadra peruviana, il Cienciano del Cusco, lo stadio Monumental di Arequipa è una bolgia infernale. I 250 tifosi del River Plate – team tra i più gloriosi e vincenti di Buenos Aires - incrociano le dita e maledicono l’infortunio di Marcelo Salas, l’ex laziale e juventino che si è “rotto” dopo pochi minuti. I 250 hinchas argentini osservano con terrore Carlos Lugo prendere la sua rincorsa potente. Quelli del River hanno l’occhio terrorizzato, tipico di chi sa di sta vivendo un momento storico. Negativo, certo, ma storico, perché la finale della Copa Sudamericana 2003 (l'equivalente sudamericano della Europa League europea, anche se vi partecipano pure i campioni di ogni paese) potrebbe essere il primo trofeo all times vinto da una squadra del Perù, nazione calcisticamente dietro anni luce rispetto a Brasile, Argentina, Uruguay, Cile, eccetera. Carlos Lugo dello Cienciano del Cusco impatta la sfera, i 45mila paganti del Monumental di Arequipa sono sull’orlo di una crisi di nervi, hanno smesso di respirare, pronti a esplodere la loro felicità di lì a sette decimi di secondo, quando la palla gonfia la rete difesa dall’arquero, il portiere del River Franco Costanzo, le cui origini italiche sono inconfutabili, così come l’inutilità del suo tuffo. Spettacolare ma fine a se stesso. Ciò che segue è difficilmente comprensibile per chi ha occhi e mentalità europea: l’intero Perù, si trasforma in un immenso salone da ballo e, per tutta la notte, la gente di Arequipa, della regione di Cuzco, di Lima e di ogni paese e città scende in strada, a brindare con enormi bottiglie di birra o, come dicono qui, di cerveza. Un episodio tra i tantissimi che riportavano le prime pagine dei giornali locali, ci aiuta a capire la follia collettiva di una nazione: a Iquitos una coppia di fidanzati che doveva sposarsi proprio il giorno del trionfo dello Cienciano, ha dovuto attendere per sei ore lo scambio delle fedi. Il motivo? Tutti stavano vedendo la partita, incluso il prete della chiesa evangelica che doveva celebrare il matrimonio! Il club è stato fondato oltre cent'anni fa, da un inglese, William Newell, a cui venne affidato il compito di creare una squadra del «Collegio nazionale di scienza» (ciencia, in spagnolo, e da qui Cienciano), il club non aveva mai vinto niente. Massimo momento di gloria, gli ottavi nella Libertadores 2001. Dal nulla, al trionfo, raggiunto con un gruppo di giocatori vecchi, messi da parte da altre società, riciclati. Si va da un portiere trentasettenne, l'argentino Ibañez, che stava già pensando a ritirarsi, a un goleador, Lugo, retrocesso con l'ultimo club peruviano in cui era finito, nella peripezia che dal nativo Paraguay lo aveva portato in mezzo Sudamerica. E poi una frotta di «ex» dell'Universitario, scartati per scarsi mezzi tecnici o raggiunti limiti di età. A questo gruppo si aggiungeva il locale Cesar Cahuantico, fino all'anno scorso poco più che un dilettante, ora titolare dei campioni. Un'armata tutt' altro che invincibile, e su cui Ternero ha dovuto lavorare parecchio: «All'inizio se tre giocatori parlavano fra loro era il massimo dello spirito di gruppo». L'ex c.t. peruviano ha così iniziato a lavorare sul lato psicologico, con citazioni bibliche e altre da film americani: «Sì, se puede» è diventato il motto della squadra. Che è diventata gruppo. Lì sono iniziate le vittorie, lì è iniziata la cavalcata, dipinta in patria come una «riconquista inca». Dalla dimenticata Cuzco, sulla Cordigliera andina, località storica e turistica seconda solo al vicino Machu Picchu, gli eredi della popolazione precolombiana hanno conquistato nell'ordine Lima (dove gli spagnoli spostarono la capitale), poi Cile, Colombia (Nacional Medellin), Brasile (Santos) e Argentina. Per l'ultima tappa si sono tolti lo sfizio di fare fuori il River Plate (3-3 in trasferta e 1-0 in casa), di farlo finendo in 9 nella finale di ritorno, e di rompere le uova nel paniere della potente emittente televisiva Fox, che sperava per la Recopa in una sfida Boca-River. Per realizzare il derby, dicono in Perù, era stato mandato appositamente un arbitro (quello delle due espulsioni) ed era stata spostata la sede della finale di ritorno ad Arequipa, ufficialmente per inadeguatezza dello stadio, forse per togliere un po' del vantaggio dato dall'altura. Sull'altro vantaggio che si sono presi i peruviani, non c'è stato nulla da fare. Presidente ed esperti si sono detti d'accordo nell'attribuire la grande vittoria a due fattori: uno stipendio che arrivava puntuale (cosa non scontata in un paese in cui il campionato è stato sospeso e soppresso per uno sciopero dei giocatori non pagati) e le proprietà rigeneranti della maca. Trattasi di una pianta che cresce sulle Ande, a quasi 4mila metri d'altezza, e le cui radici hanno proprietà già apprezzate dagli Inca, gli antichi abitanti del Perù. Dimenticata dal mondo, e preservata solo nella zona di Cuzco, la pianta, oltre a essere definita il «Viagra peruviano», dà provati effetti rigeneranti anche per i giocatori: una sorte di integratore naturale. Fa parte del segreto del Cienciano, resterà nella leggenda.

Quando Massimo Barbuti mandò il Milan all'Inferno

Quel 14 settembre 1986, prima giornata di campionato Davide riuscì ad abbattere Golia. E i 60 mila di San Siro ammutolirono. L’uomo che fece piangere il Milan, il protagonista di quell’epica impresa fu Massimo Barbuti, di Pontetetto (Lucca), una vita a girare campi di provincia (Spezia, Parma, Ascoli, Taranto, Foggia...) lasciando sempre il segno con caterve di reti gonfiate.Il gol di San Siro però è rimasto negli annali del calcio. Un cammeo realizzato a 28 anni, forse troppo tardi per poter aspirare a club più prestigiosi. «Una rete che mi fruttò 8 milioni - racconta l’ex goleador dei poveri, bomber osannato a La Spezia e Parma (c’è ancora un murales con la sua effigie) - il premio partita pagato dall’incredulo, ma entusiasta Costantino Rozzi, il vulcanico presidente dell’Ascoli. A parte quei soldi, i titoli dei quotidiani sportivi, la domenica di celebrità e una piccola festa al mio ritorno nelle Marche con la gente alle finestre che sventolava bandiere bianconere e urlava il mio nome, quella rete che mi porterò dietro per sempre non mi ha consentito di spiccare il volo verso club più importanti. Per me, forse, i treni erano già passati e non sono mai riuscito a salirci sopra. Proprio quell’anno dovevo andare all’Inter a fare la terza punta dietro Altobelli e Rummenigge. Ma all’Ascoli non ne vollero sapere di lasciarmi andare dopo i 15 gol realizzati nel torneo cadetto. Spararono 3 miliardi per la mia cessione e i neroazzurri presero Garlini. Ma l’occasione più ghiotta della mia vita l’ho avuta quando poco più che ventenne dovevo andare al Barcellona. Giocavo nello Spezia e segnavo a raffica tanto che vennero a vedermi dalla Spagna. Era il 1979. Mi portarono a fare un torneo a La Coruna. I blugrana mi volevano a tutti i costi. Ma erano altri tempi, altra mentalità. Cosa andavo a fare in un paese per me sconosciuto? Rinunciai. E pensare che potevo essere il primo italiano ad indossare la gloriosa maglia del Barça». Quando parla di quel Milan-Ascoli del 1986 gli sembra di assaporare ancora quei momenti magici. Ricorda tutto nei minimi particolari: la partenza da Ascoli, l’allenamento di rifinitura in un campino nell’hinterland meneghino e soprattutto la convinzione di poter fare una grande partita. «Me lo sentivo. Un presentimento che nasce dalla voglia di dimostrare a tutti che la serie A l’avevo meritata, conquistata da solo partendo dalla parrocchia del mio paese quando, tra il disappunto del prete, piazzavo pali e traverse davanti alla porta della chiesa e mi allenavo a tirare. Giocare al Santiago Bernabeu, a Wembley o a San Siro per me era lo stesso. Avevo una carica tale che niente e nessuno mi avrebbero fermato. Dopo le solite raccomandazioni del mister ci cambiammo in silenzio e in fila indiana salimmo la scaletta che porta sul terreno di gioco. Alzai gli occhi e per la prima volta in carriera non vidi il cielo. Sopra di me una muraglia umana di persone. Roba da brividi. Ma durò pochi istanti, il tempo di battere il calcio d’inizio». Il Milan preme, l’Ascoli gioca di rimessa: «Un 8-1-1 - ride di gusto Barbuti - nel senso che ero da solo là davanti con Brady a fare da rifinitore. Il mister si era raccomandato di tener palla, di perder tempo e consentire alla difesa di respirare». Scocca il 19’. «Un minuto prima Virdis aveva colpito il montante. A centrocampo Brady arpiona un pallone e con il suo magico sinistro mi lancia in profondità. La palla indirizzata verso il vertice destro dell’area di rigore sta dirigendosi all’altezza della bandierina. Baresi è in anticipo, ma io, sull’esterno, al secondo rimbalzo da posizione angolatissima non ci penso su due volte e tiro in porta. Come facevo da bimbo sul sagrato della chiesa. Presi la palla di collo pieno mentre calava con tutta la forza che avevo. Ne venne fuori una parabola strana con la sfera che si abbassò in maniera repentina andandosi ad infilare a fil di palo alle spalle di Galli. Mi resi conto del gol soltanto quando venni travolto dall’abbraccio dei compagni. Nella ripresa ci strinsero d’assedio: salvataggi sulla linea, mischie, palle gettate in tribuna. Allo scadere potevo segnare una doppietta se non avessero fischiato un fuorigioco inesistente su un lancio millimetrico di Trifunovic. Soltanto alla fine mi resi conto di aver compiuto un’impresa mandando il Diavolo all’inferno sotto gli occhi di Berlusconi». Altri tempi, altri miracoli...

Beccalossi Evaristo: Scusate se insisto!

Scusi, Evaristo Beccalossi, ma se non è vero che l'ha detto è comunque verosimile, dopo aver segnato due reti in un derby. «Su questo non ci sono dubbi. Le due sole reti che ho mai fatto al Milan le ho fatte tutte assieme, regalando la vittoria all'Inter che poi avrebbe vinto lo scudetto e consacrandomi presso i tifosi, io che ero un ragazzino appena arrivato da Brescia. Cosa avrei potuto volere di più?». Dimentica di dire che le ha segnate di destro. Che non è male per uno dei sinistri più vellutati e dolci degli anni '80... «E lei non dimentichi che io nasco destro di piede. Poi ho perfezionato il sinistro con gli allenamenti». Inutile chiederle se si ricorda ancora tutto di quel derby. «Inutile sì, perché mi ricordo tutto, ovviamente. Anzitutto, una storia sul mio nome di battesimo legata a quel derby c'è, ed è che si giocò due giorni dopo il mio onomastico. Forse ero predestinato». Una rete al 14' e una all' 84': ce le racconta? «Tutte e due difficilissime. No, scherzo. Allora, la prima su corner da sinistra: Altobelli per Pasinato, cross e in mezzo all'area il mio tocco di piatto, facile in sé, però ero in mischia e ho messo la palla bene sul secondo palo. Diciamo che sono stato bravo a pensare che la palla potesse andare dove è andata e a farmi trovare lì libero. E lì lo stadio ha iniziato a ribollire. Che bello, non dimenticherò mai quella sensazione e quel momento». E l'esplosione definitiva di San Siro a pochi minuti dalla fine.«Muraro è schizzato in contro-piede, io sono stato bravo a stargli dietro anche se non so come ho fatto vista la differenza di velocità tra di noi. Poi me l' ha passata a due metri dalla linea di porta, metterla fuori era davvero difficile». Tutto ciò su un terreno infame, che teoricamente avrebbe dovuto crearle dei problemi. «Teoricamente, appunto. Perché invece nel fango ho fatto le mie partite più belle. Col sole mi prendeva il coccolone».Oltre a quello, che altri derby ricorda?«Tutti, anche perché ne ho persi solo un paio. Ma l'1-0 di Oriali, un paio di anni dopo, mise fine a un nostro brutto momento. Grande amico, Lele, uno di quelli che sentiva più la tensione pre-derby: nei giorni che precedevano la sfida col Milan c'era la nebbia nella stanza che dividevamo, tante erano le sigarette che fumavamo dal nervosismo. Da gente come lui, Baresi, Canuti, Bini, quelli cresciuti nella Primavera, ho capito che non era una partita normale». Non lo era neanche per i tifosi. «Certo. Infatti quelle due reti mi hanno fatto adottare dalla Nord. Ovunque andavo, dal tabaccaio, dal fornaio, dal salumiere, ero sempre salutato con simpatia e grandi feste. E in seguito gli incitamenti per il derby iniziavano ben prima della domenica. Pure i milanisti nel complesso mi apprezzavano, stimavano il talento».Sono Evaristo, scusa se insisto. «Vecchia storia, carina, mi ci diverto anche io a ripetere quella frase, ogni tanto. Solo che non l'ho mai detta ad Albertosi a fine partita, quel famoso 28 ottobre 1979, come vuole la leggenda. È stato qualche mio compagno di squadra, poi però me l'hanno attribuita e a questo punto me la tengo». Quel 28/10/1979 fu il “Beccalossi Day”. Un pessimo pomeriggio di mezzo autunno, preludio ad un epilogo che sarebbe stato più che traumatico. Il Milan quel giorno viene azzerato da Beccalossi, ma a fine stagione sarà cancellato dalla serie A dalla giustizia sportiva. Fulvio Collovati, rossonero per sei anni, puntualizza: «Quel campionato lo vinse l'Inter di Bersellini, ma l'anno prima lo scudetto era andato a noi». Cosa combinò quel giorno Beccalossi? «Era in una di quelle giornate di grande ispirazione, in cui era difficile limitarlo. Un giocatore dalle qualità tecniche non comuni, di quelli che si vedono sempre meno spesso nel calcio di oggi». La stampa sportiva lo voleva a tutti i costi in Nazionale prima dei Mondiali del '78. Si ricorda? «Ricordo benissimo che andai a giocare un'amichevole con la Nazionale a Como, dove in tribuna c'erano un sacco di interisti. Non si contavano gli striscioni a suo favore, ma Bearzot tenne duro e portò in Argentina Antognoni. Decisione giusta? «I fatti gli hanno dato ragione. Forse a Beccalossi mancava solo un pizzico di continuità. Ma se giocasse oggi, non avrebbe difficoltà a trovare posto in azzurro». Torniamo a quel derby. Chi marcava Beccalossi? «Io no di sicuro, ero su Altobelli. Forse De Vecchi, forse Bet. Ma il primo gol non fu certo colpa del nostro marcatore. Fu una dormita collettiva... non si può permettere a uno come Beccalossi di battere tranquillamente a rete da dentro l'area su un calcio d'angolo, con il pallone che attraversa tutto lo specchio della porta, passando sul primo palo. E poi farlo segnare di piatto, dico di piatto, è il colmo». E il raddoppio? <<L'ho rimosso dalla memoria!>>

Hateley ed il suo derby della Madonnina

Nell'eterna sfida tra Milan e Inter spicca il match della stagione 1984/85 dove un Milan pre-berlusconiano piegò i nerazzurri di Castagner grazie ad una spendida rete del suo centravanti inglese Mark Hateley. Scomodarono persino il mitico John Charles. E poi Prati, un' altra icona del nostro calcio. E, pure lui, l'ex grande campione juventino si inchinò di fronte al prodigio del suo giovane erede, «il diavolo inglese», come i giornali britannici definirono Hateley: «Mark è un grande, davvero. E, un giorno, credetemi, la sua fama sorpasserà la mia. I difensori italiani sono bravi, ma contro i centravanti britannici come me e Hateley l'astuzia non basta. Con il suo talento sarebbe esploso anche in Inghilterra, ma al Milan ha trovato la via più breve per il successo». Pallone fra i piedi di Altobelli che tenta di far ripartire la manovra nerazzurra, intervento deciso di Franco Baresi che gli ruba palla e serve Virdis il quale, giunto sul fondo, serve a centroarea un cross sul quale Hateley si avventa. Lo stacco, proprio sul dischetto del rigore, è fulmineo, tanto che Mark riesce ad anticipare nettamente Collovati. Vano il tuffo di Zenga, mentre il pallone si insacca nell'angolino alto alla sinistra del portiere. Un prodigio entrato di diritto nella storia. Del resto quel ragazzone di Derby (ironia del destino...), appena sbarcato nella Milano rossonera proveniente dal Portsmouth, segnò un gol da favola, che diede la vittoria ai rossoneri nel derby dopo un'attesa di sei anni. Un sollievo per i rossoneri, la cui ultima vittoria nella stracittadina risaliva a quella di andata del 1978-79, la stagione della stella .Detto e fatto: basta ricordare quella prodezza nel derby di andata della stagione 1984-85 per comprenderlo. Così ricordò Hateley a fine gara: «Ho visto arrivare quel pallone, e mi sono buttato, saltando più in alto possibile. Pochi I nuovi pezzi per il Milan di Liedholm edizione 1984/85: Hateley, Wilkins, Di Bartolomei, Terraneo e Virdis.. Poi una sincera confessione: «Quando sono arrivato in Italia ero semisconosciuto. Le altre squadre prendevano Maradona, Platini, Zico e Socrates. Il Milan, che veniva da stagioni a dir poco infelici, puntava su di me. Roba da non credere». E fra i mille elogi dei vip presenti in tribuna d' onore, spiccò quello di Ugo Tognazzi, che definì Hateley e Wilkins, con uno strano paragone gastronomico, come «due rare e raffinatissime spezie inglesi in un piatto divino». Su Hateley, invece, il suo tecnico Liedholm spiegò che con lui aveva «imparato molto in fatto di tecnica, ma molto poteva e doveva ancora fare. Il risultato, comunque, è sotto gli occhi di tutti». Nota statistica: prima di quel giorno, da oltre ventotto anni la squadra che passava per prima in vantaggio nel derby di Milano si era sempre aggiudicata almeno un punto. Finché, però, un giorno arrivò Hateley, l'uomo giusto per abbattere le statistiche. «Mi ha sbalordito» sussurrò Franco Baresi. Non solo lui. Fu un successo che fece arrabbiare moltissimo il presidente interista Pellegrini. Il quale, incontrando il collega milanista Farina negli spogliatoi, gli disse: «Complimenti: avete vinto una battaglia, ma la guerra sarà nostra». Si sbagliava. A fine campionato, il Milan sarebbe arrivato quinto, l'Inter terza dietro al Torino e al magico Verona di Osvaldo Bagnoli.  28 ottobre 1984, 2-1 il risultato finale per i rossoneri, anche se quel giorno fu proprio l'Inter di Castagner a passare in vantaggio per prima, grazie a una prodezza di Altobelli al 10' del primo tempo. Grande agonismo a centrocampo, finché poi toccò a Di Bartolomei, al 33', pareggiare i conti su una combinazione Wilkins-Virdis. Non cambiò nulla fino al 18' della ripresa, quando sembrava che nessuno sarebbe più riuscito a sbloccare il risultato. Ci riuscì, invece, Mark Hateley, migliore in campo e protagonista di un acceso duello con l'interista Collovati. Una buona parte del merito del successo milanista, che aveva approfittato anche del calo fisico dell'Inter affaticata dagli impegni di coppa, andò anche a Terraneo, decisivo in almeno tre interventi, oltre che al solito Baresi, con l'unica macchia di Battistini franato sotto i colpi di Rummenigge e uscito in anticipo per una distorsione alla caviglia destra che si era procurato durante il riscaldamento. Mauro Tassotti, ora vice allenatore del Milan, era lì, a due passi, quando Hateley volò fino al cielo per vincere con un colpo fantastico il derby di San Siro contro l'Inter. «Ma prima della gioia - ricorda ora il tecnico rossonero - arrivò lo stupore. Uno stacco incredibile, che dimostrò quanto Mark possedesse un tempismo e una forza davvero rari. Di tipo inglese, alla Charles o alla Jordan contro un difensore, Collovati, che non scherzava quando c'era da saltare a stretto contatto con l'avversario. Ho ancora negli occhi la meraviglia di tutti noi che gli stavamo intorno, gli applausi, l'entusiasmo, ma anche i complimenti sinceri che gli facemmo per un gesto atletico incredibile». Una rete di tipo inglese? L'idea, il paragone, hanno una loro precisa motivazione tecnica: «Sì - spiega ancora Tassotti - perché certi contatti, anche rudi, persino nelle azioni aeree, nel calcio britannico sono all'ordine del giorno, e soprattutto sono permessi. Ricordo che Hateley ebbe poi parecchi problemi con i nostri arbitri, che se ne lamentò spesso. Lui era abituato a fare in un certo modo e loro glielo impedivano, continuavano a fischiargli dei falli contro». Poco male, perché i risultati gli diedero comunque ragione. Hateley non capiva perché a latitudini non poi molto diverse ci fossero giudizi così diversi. E nessuno riuscì mai a spiegarglielo fino in fondo. «Ma quel giorno - ricorda Tassotti - non ci furono problemi. Il suo fu un gran gol, uno di quelli che si ricordano per tutta la vita e che si portano ad esempio quando c'è qualcosa da insegnare ai ragazzi»

Genoa-Samp: Quando Pruzzo si aggrappò al cielo

C'era una volta uno stadio senza tetto...Marassi…e un bomber che si chiamava Roberto Pruzzo, ma per i tifosi del Genoa era semplicemente "O Rey" (sì, proprio come il grande Pelè). Per la precisione "O Rey di Crocefieschi" perché era nato nel paesino abbarbicato sull'Appennino ligure. Pino Williner, baistrocchino e grande tifoso genoano, celebrò le gesta di Pruzzo addirittura in una commedia musicale che venne messa in scena all'auditorium della Fiera del mare. Orecchiabile il ritornello: «Che cosa non farei, che cosa non darei per abbracciare O Rey... ».E quel derby del 13 marzo 1977 passò alla storia proprio come il derby di Pruzzo. Fu anche la prima cartolina dei tifosi del Genoa, 13 anni e 6 mesi prima di quella di Branco. Perché la foto di Pruzzo che salta sin lassù, inarrivabile per gli avversari, divenne un'immagine cult che tuttora provoca un'accelerazione dei battiti cardiaci dei sostenitori rossoblù. Quella vittoria per i tifosi genoani ebbe un sapore particolare, non decretò infatti solo la supremazia cittadina ma di fatto propiziò anche la retrocessione della Sampdoria in serie B». Per una volta, infatti, le parti si erano invertite: non era il Genoa alla disperata di punti per cercare di evitare la serie B ma la Sampdoria. E per far retrocedere i cugini, il Genoa ci mise davvero tanta buonissima volontà. Non solo vinse il derby, ma poi perse anche in casa con Bologna e Foggia, avversarie dirette dei blucerchiati nella lotta per la salvezza. Insomma, si era dovuto aspettare 26 anni, ma alla fine il "derby di Sabbatella", quello del 22 aprile 1951, deciso a 3' dalla fine da un gol dell'oriundo della Samp, era stato vendicato. E Vladimiro Caminiti, il giornalista poeta, su Tuttosport scrisse: «Il Genoa non è soltanto Pruzzo e Damiani, è anche una grande folla che gli soffia nel cuore». Eppure, da parte rossoblù, il preludio non sembrava davvero quello di una giornata trionfale. Altro che Pruzzo, ad andare in gol, dopo appena 3', era stato il suo avversario diretto. Luciano Zecchini, lo stopper della Samp e dunque colui che si sarebbe unicamente dovuto preoccupare di neutralizzare il bomber del Genoa, recupera una palla nella propria metà e poi trova un corridoio che gli permette di scendere indisturbato verso la porta di Girardi, chiede e ottiene il triangolo da Savoldi II e da almeno 25 metri, lui che è solo mancino, lascia partire un destro imprendibile. Ma quali tornelli e biglietti nominali, nel catino di Marassi vengono stipati 50 mila spettatori (44.321 i paganti per 158.566.600 di vecchie lire d'incasso), l'antico Ferraris, che era stato inaugurato proprio il giorno del derby di Sabbatella, presenta davvero un colpo d'occhio straordinario. In campo, però, sembra esserci una squadra sola. La Sampdoria ha in mano il pallino e continua a macinare gioco. Pruzzo? L'ombra di se stesso. Ma Simoni cambia la marcatura su Savoldi II e azzecca la mossa che cambia il volto della partita. Arcoleo gli lascia troppo spazio, il numero 10 blucerchiato è la fonte di tutto il gioco della Sampdoria, così dalla panchina rossoblù, viene ordinato ad Ogliari di stargli appiccato e non concedergli un metro ("Savoldi è partito alla Sivori ma poi Ogliari gli ha nascosto la palla..." riferisce Caminiti). Il Genoa pareggia all'ultimo minuto del primo tempo: papera di Di Vincenzo, e tocco facile di Damiani. Sono tre i genovesi in campo (il ventenne De Giorgis resta in panchina): Arnuzzo ed appunto Di Vincenzo e Pruzzo. Il portiere ed il re dei bomber si trovano faccia a faccia, come in un duello all'Ok Corral, al 3' della ripresa quando Gussoni di Tradate assegna un rigore al Genoa per un fallo di Arnuzzo su Damiani. Pruzzo, senza finta, calcia alla sinistra del portiere, Di Vincenzo, che sta chiudendo nella Sampdoria una carriera che aveva iniziato proprio nel Genoa, intuisce e para. «Una brutta botta - disse il bomber di Crocefieschi - Per rifarsi aveva solo un modo: fare gol su azione. Così dall'inferno si ritrovò in paradiso, ma fu dura perché quando si sbaglia un rigore nel derby il morale te lo ritrovi davvero sotto i tacchetti delle scarpe. Pruzzo non aveva mai sentito troppo le partite, ma per il derby era diverso. certamente il fatto che fosse di Genova gli metteva addosso una tensione ed una pressione enormi. L'occasione per riscattarsi da quel rigore sbagliato, a Pruzzo capita al minuto 33 del secondo tempo. Il cross dalla sinistra è di Castronaro. La difesa della Sampdoria non è certamente piazzata nel modo migliore. Lippi, futuro ct campione del mondo, interpreta in maniera singolare il ruolo del libero, standosene quasi fuori dall'area di rigore, mentre la palla spiove al limite di quella piccola. Zecchini si fa bruciare in elevazione e Di Vincenzo galleggia tra palla e porta in quella terra di nessuno che per un portiere rappresenta la zona peggiore dove posizionarsi. Per chi sa di calcio….sa che un cross dalla tre quarti non può diventare un assis! In quell’azione c’era stato un madornale sbaglio. Di Vincenzo voleva uscire, poi ci ripensò e così è rimasto a metà strada. Forse avevano sottovalutato Pruzzo, ma a quei tempi….lui…saltava davvero in cielo...». Andava davvero in cielo il bomber che poi Fossati cedette a peso d'oro alla Roma anche se era stato  promesso al Milan e, prima ancora alla Juventus. Era fatto così, u sciu Rensu: gli affari prima di tutto. Ma di calcio capiva e aveva allestito un'ottima squadra. Il Genoa di quella stagione era davvero una gran bella squadra che Simoni faceva giocare a trazione anteriore. Ma in quel calcio, che ancora non prevedeva i tre punti a partita, era forse il caso di essere un po' meno spettacolari e più coperti dietro». La leggenda narra che a raccomandare Pruzzo a Fossati fu il benzinaio davanti ai Sette Nasi dove il presidente genoano si fermava a fare il pieno…ma è soltanto una leggenda metropolitana. La verità è che fu un amico ad indirizzare “O Rey” nel settore giovanile del Genoa: aveva 16 anni, due anni dopo esordiva in serie A». Ma la sua è comunque è una storia da raccontare, una storia d' altri tempi, non ho avuto maestri, ha sempre e solo giocato nel campetto della chiesa di Crocefieschi. Ha giocato nel primo campo vero, se così si può chiamare, all’età 15 ann,i a Vobbia, nel torneo dei bar». Bar nei quali ancora oggi troneggia il poster di quel famoso e ormai lontano gol dove “O Rey”…fermò il tempo e la storia, aggrappandosi al cielo come un falco!

L'Italia Mundial di Spagna 82

Dal buio di Vigo alle luci di Madrid. Una sfida impossibile finita in trionfo...Ecco una splendida rilettura del più incredibile dei trionfi azzurri Il mondiale spagnolo è giunto alla seconda fase. Le potenze sono ancora tutte in corsa, anche se nella maggior parte dei casi il loro cammino non è stato trionfale: la Spagna padrona di casa ha superato la Jugoslavia solo in virtù di una condotta arbitrale da censura; l'Argentina campione in carica ha accusato un passo falso contro il Belgio; Germania Ovest e Austria hanno fatto fuori una splendida Algeria accordandosi spudoratamente nell'ultima partita. Solo Inghilterra e Brasile hanno ottenuto il lasciapassare a punteggio pieno. Addirittura, lo squadrone sudamericano ha messo a segno dieci reti, subendone solo due. Quanto all'Italia, si può definire grande solo per i fasti passati. Non sembra esserci più traccia della squadra che quattro anni prima, rinnegando il cinismo del calcio all'italiana, ha sfiorato la finale. Nel clan azzurro c'è aria pesante, alimentata dai responsi delle premondiali: sconfitta (0-2) con la Francia a Parigi; sconfitta (0-1) a Lipsia con la Germania Est; pareggio incolore a Ginevra contro la Svizzera. Addirittura sconfortante il test sostenuto a tre giorni dal debutto contro il Braga, serie B portoghese: 1 a 0, gol di Graziani e una manovra contratta e involuta. Bearzot è il testardo capo di questi masnadieri ormai privi di nerbo. E dire che la squadra è quella presentata in Argentina nel '78, salvo alcuni rimpiazzi imposti dalla carta di identità e la dolorosa rinuncia a Bettega, infortunato. Una quasi unanime campagna di stampa, nell'imminenza del mondiale, ha cercato di suggerire al condottiero friulano la chiamata del "genio" interista Beccalossi, che a 26 anni ha raggiunto i vertici della sua arte calcistica. Ma Bearzot non ha sentito nessuno, per Beccalossi nella sua idea di squadra non c'è posto. Alla partenza per la Spagna, a Fiumicino, il commissario tecnico si è anche dovuto difendere da un insulto urlato con rabbia da una ragazza: «Bastardo!». Lo ha fatto rifilandole un ceffone, a scopo educativo. I leoni in gabbia, nel "retiro" di Barcellona, non hanno certo superato le tensioni della vigilia. Anzi, il cammino fatto nella prima fase dei campionati, benché concluso con la qualificazione, li ha messi ancor più alla berlina. Pareggio, discreto, con la Polonia; pareggio, brutto e affannoso, con il Perù; pareggio, opaco e calcolato, con il Camerun. Risultato: secondo posto nel girone e passaggio alla seconda fase per differenza reti, ai danni del Camerun. Le critiche sono cresciute dopo ogni prova e dall'Italia hanno raggiunto gli azzurri nell'umida dimora di Vigo. Critiche al gioco, al difensivismo a oltranza, all'impreparazione fisica, all'ostinazione di Bearzot nel tenere in campo il pallido, smagrito e inconcludente Rossi. Già, proprio il Pablito strepitoso di Argentina, rimasto impegolato nello scandalo scommesse e uscito dai due anni di squalifica proprio qualche settimana prima dell'inizio del mondiale. Per il pubblico che lo attendeva come il messia quei due anni non sono passati, ma per Rossi sì. Il ragazzo sorridente e disponibile di prima adesso si isola ed evita per quanto possibile i giornalisti. Si capisce che la squalifica, per fatti di cui si è sempre dichiarato innocente, lo ha segnato non solo nel fisico. Al ritiro azzurro si è presentato cinque chili sottopeso e ancora non li ha recuperati tutti. Le difficoltà evidenziate anche nelle giocate più semplici, la condizione atletica inquietante, l'evanescenza nello scontro fisico, gli hanno rapidamente alienato i favori del pubblico. Durante un allenamento, alla vigilia dell'incontro con il Camerun, un italiano gli ha gridato al megafono: «Rossi, sei comico!». Per lui ha reagito Graziani: «Se siete venuti solo per attaccarci potevate restare a casa». Anche quando tutti ne chiedono la testa, Bearzot continua a ritenere Rossi troppo importante per non attenderne il risveglio. Ma gli stralci polemici non sono venuti solo dalla stampa. Dopo la partita col Perù hanno chiesto a Matarrese, presidente di Lega, se Catuzzi, allenatore del suo Bari, si sarebbe comportato come Bearzot; cioè, se avrebbe mandato in campo Causio, e non un attaccante, al posto di Rossi. La risposta: «Non offendiamo Catuzzi». E ancora: «Al posto del presidente federale Sordillo non sarei sceso negli spogliatoi, perché avrei dovuto prendere tutti a calci nel sedere». E dall'Italia è giunta anche la bordata del giovane tecnico Fascetti: «Mi vergogno di appartenere alla stessa categoria di Bearzot».
Fin qui, rilievi più o meno tecnici. Ma c'è dell'altro. Innanzitutto la diatriba sul premio di qualificazione: si è parlato di 60-70 milioni a testa e su tali voci si sono levate proteste nell'opinione pubblica, un'interrogazione parlamentare e un esposto alla Procura della Repubblica di Roma. Poi è intervenuto Sordillo, precisando che ogni azzurro avrebbe ricevuto una ventina di milioni lordi. E Carraro, presidente del Coni, ha assicurato che per il pagamento si sarebbero utilizzate le percentuali sugli incassi. A questa tensione di fondo si è aggiunta poi una ventata di basso giornalismo, con volgari insinuazioni su Rossi e Cabrini compagni di camera. Insomma, l'aria di Vigo si è rivelata umida in tutti i sensi. Così, al momento di lasciare la Galizia per Barcellona, la squadra, provata anche psicologicamente dalla passata paura dell'eliminazione, ha annunciato il silenzio stampa. Nessun giocatore, a termine indefinito, avrebbe più rilasciato dichiarazioni, salvo capitan Zoff. Al sole di Barcellona, quindi, gli azzurri si leccano le ferite e meditano una vendetta difficilissima, considerati gli abbinamenti per la seconda fase. Con il secondo posto del turno eliminatorio, l'Italia s'è guadagnata infatti due terribili compagni d'avventura: Argentina e Brasile. La prima arrivata di questo terzetto va in semifinale, le altre a casa. Bearzot ha un unico credo: difendere i suoi, fino allo stremo. Rivelerà poi di aver visto nella fase eliminatoria, in particolare contro il Perù, la squadra letteralmente terrorizzata dalla paura di perdere; ma intanto distribuisce ai giocatori elogi che, a fronte della realtà, paiono senz'altro esagerati. I giocatori, di conseguenza, fanno blocco in favore del loro tecnico, anche se, per la verità, qualche crepa affiora: il giovane Massaro, per esempio, è segnalato come uno dei più in forma, ma si dice sia stato "cancellato" da Bearzot dopo l'amichevole di Braga, quando il giocatore ha espresso critiche ai compagni. E Altobelli, che in allenamento segna a ripetizione, rimugina amaro sul suo ruolo di panchinaro. L'emergente Dossena, invece, che molti vedrebbero volentieri in squadra, si adatta di buon grado a fare il "turista". II silenzio stampa non piace al presidente Sordillo, che prima del debutto nel secondo turno, contro l'Argentina, tenta di convincere la squadra a desistere. Zoff risponde picche. Di fronte all'Italia di Vigo, l'Argentina sembra uno scoglio titanico. Rispetto a quattro anni prima, i campioni del mondo hanno aggiunto al loro organico un po' invecchiato il miglior giocatore in circolazione, quel Maradona che giocherà davanti ai suoi prossimi tifosi, visto che ha da poco firmato un contratto principesco con il Barcellona. Maradona con la palla al piede fa prodigi che non si vedevano dai tempi di Pelè. Degli azzurri lo conosce molto bene Tardelli, che lo ha affrontato due volte: la prima con la Nazionale nel '79, a Roma; la seconda in un'Argentina-Resto del Mondo. In quest'ultima occasione Tardelli fu espulso per rudezze ai danni del giovanissimo e imprendibile avversario.Maradona, letteralmente cancellato da Gentile nella vittoriosa partita degli azzurri per 2-1 Bearzot fa strenua pretattica, non vuole dare alcun vantaggio al carismatico Menotti, tecnico avversario, con il quale i rapporti non sono al momento idilliaci. L'argentino, infatti, ha imbastito critiche abbastanza dure nei confronti della squadra azzurra, definita "squilibrata" e nettamente inferiore a quella presentata in Argentina. Bearzot non digerisce e rimanda al mittente: «Anche la sua squadra, durante le amichevoli premondiali, poteva essere definita squilibrata. E poi cosa ne pensa della prestazione dei suoi contro il Belgio?». Schermaglie a parte, il ct azzurro non ha intenzione di toccare nulla rispetto agli uomini impiegati contro il Camerun: Zoff tra i pali; Collovati, Gentile e il libero Scirea a formare il pacchetto difensivo, con Cabrini fluidificante a sinistra; a centrocampo, Oriali, Tardelli e Antognoni, con il supporto di Conti; Rossi punta centrale, Graziani in appoggio. Rimane un unico dubbio: chi marcherà Maradona? Bearzot è indeciso fra Tardelli e Gentile. Ma Maradona gioca in chiave esclusivamente offensiva, e Tardelli su di lui dovrebbe fare il difensore puro, privando così la squadra di una spinta importante. Così, negli spogliatoi, a pochi minuti dal fischio d'inizio, Bearzot prende da parte Gentile e gli fa un discorsetto di questo tipo: «Maradona lo prendi tu. E' un grandissimo, il tuo compito è fondamentale. Ma io ho fiducia in te. Va' in campo e annullalo». Per uno come "Gheddafi" basta e avanza: l'ultimo momento in cui Mar­dona può muoversi senza un'ombra azzurra appiccicata addosso è quello del riscaldamento. Il piccolo Sarrià, secondo stadio di Barcellona dopo il Nou Camp, è una fornace ribollente: le prime fasi si risolvono in una sequela di scontri durissimi. Gli azzurri mostrano i tacchetti, ma dall'altra parte, con gente come Passarella e Gallego, non ricevono sorrisi. Maradona prova ad esibirsi, si vede che il suo bagaglio è superiore. Ma l'ombra azzurra che gli è alle costole sembra avere cento mani e cento piedi: il "pibe de oro" è trattenuto, bloccato, "massaggiato". E quando, verso la metà del tempo, riesce ad andar via e puntare dritto alla porta, viene steso senza pietà dal classico e generalmente correttissimo Scirea. Si va al riposo sullo 0 a 0. Neanche male, almeno non si sono riviste le mollezze e i timori di Vigo. E nella seconda parte, dopo una dozzina di minuti, parte dai piedi di Conti un contropiede che taglia in due i biancocelesti. L'ultimo tocco è di Antognoni per la veloce sovrapposizione di Tardelli che, spostato a sinistra, piazza un rasoterra nell'angolo lontano. E' una rasoiata al petto dell'Argentina. Un sogno? Neanche per idea, perché da quel momento l'Italia tiene botta di fronte agli attacchi avversari senza concedere più nulla. Lo stesso Gentile non ricorre nemmeno più al fallo per fermare Maradona. Gli azzurri formano ora un meccanismo perfetto, in cui lo stesso Rossi dà cenni di ripresa. E proprio a Rossi, poco dopo, capita l'opportunità di filare da solo verso il portiere Fillol. Al momento della battuta, in preda alla fatica e a tutte le sue tensioni irrisolte, Paolo si rattrappisce scomposto e consente a Fillol la respinta. Il mondo potrebbe crollargli addosso, se quel pallone non fosse subito artigliato e giocato magicamente da Conti, che dopo aver nascosto la sfera allo stesso Fillol, la serve indietro a Cabrini. Sinistro secco e 2 a 0. Ora si va in discesa. Esce esausto Rossi ed entra Altobelli, appena in tempo per prendersi una perfida gomitata in faccia da Passarella. Lo stesso Passarella calcia una punizione mentre Zoff sta ancora sistemando la barriera e porta l'Argentina sul 2 a 1, fra le proteste italiane. In chiusura, folleggia ancora Bruno Conti, capace di uscire palla al piede da un nugolo di gambe che lo falciano come motoseghe. Cosa è successo? Non è facile spiegarlo, sta di fatto che i giocatori hanno trasformato la sindrome da assedio da cui è nato il silenzio stampa in una straordinaria forza morale. Ecco cosa meditavano i leoni in gabbia, nella tesa vigilia. Bearzot si presenta in sala stampa senza sorridere. Anche per lui è una rivincita ed evidentemente le ultime polemiche il ct le ha ancora sullo stomaco. Pur nel successo, tende ancora a giustificare le precedenti magre: «Nelle prime partite - dice - c'è mancato il colpo del ko.». Fra gli azzurri, molti cominciano a pensare che sarà difficile fermare la "nuova" Italia. Eppure, è alle viste l'incontro con i "mostri" brasiliani, predestinati al trionfo. Intanto, c'è modo di rilassarsi. Il giorno dopo la battaglia, Graziani, Rossi e Collovati scendono presto in sala video per rivedersi l'incontro. Gli altri dormono fino a tardi e nel pomeriggio sciamano per le vie di Barcellona in tutta libertà. Chi vuole, può tornare anche alle soglie della mezzanotte. La mattina del 2 luglio, a Casa Italia piomba il presidente del Consiglio Spadolini, diretto a Madrid. Non sono momenti facili per lui e per il suo governo. Ma soprattutto non sono momenti facili per l'Italia, che si scopre infestata dalla P2 e nelle more oscure dell'affare Calvi, trovato qualche giorno prima impiccato a Londra. Di fronte a Spadolini, Sordillo si lancia in un discorso aulico, con riferimenti addirittura alla fatale avventura di Leonida alle Termopili. Nel pomeriggio, gli azzurri si recano di nuovo al Sarrià, ma questa volta in veste di spettatori interessati: c'è Argentina-Brasile, un grande classico del calcio mondiale. Il Brasile signoreggia contro un avversario ormai provato. Uno, due, tre gol, a cui gli argentini oppongono solo una segnatura in extremis. Maradona si fa prendere dall'ira, piazza i bulloni sul fianco di Batista e conclude il suo mondiale con un cartellino rosso. A scusante della sua magra pone i colpi presi contro l'Italia. «Non è ancora maturo», sentenzia il grande Pelè, che ha invece eletto Bruno Conti a suo preferito. Italia-Brasile è quindi lo scontro decisivo. A Casa Italia i rapporti fra stampa e squadra non sono certo tornati allegri: fra Gentile e Lino Cascioli del Messaggero si viene quasi alle mani. Ai sudamericani basta il pareggio, per la migliore differenza reti. Bruttissimo affare: bisognerà scoprirsi. Nelle certezze del Brasile affiora comunque qualche preoccupazione. Il selezionatore Santana teme il contropiede azzurro e si dice ammirato dalle giocate di Conti e Antognoni. Le due squadre sono al completo, l'unico dubbio è la presenza di Zico, maestro fra i maestri, vittima di un'entrata assassina di Passarella. L'opinione comune è che fra le due formazioni ci sia un forte divario. Eppure, nel cammino trionfale del Brasile è possibile intravedere piccole falle, soprattutto nella scarsa affidabilità del portiere Valdir Peres e nell'assenza di un uomo d'area più prolifico di Serginho. Inoltre, gli italiani hanno riposato cinque giorni, i loro avversari due. Zico passa la vigilia con la borsa del ghiaccio sul polpaccio sinistro, ma alla fine decide di giocare. Bearzot ha previsto di affidarlo a Oriali, dirottando Gentile sull'ala Eder, mancino temibilissimo. Invece, proprio dieci minuti prima dell'inizio, Bearzot chiama Oriali e Gentile e rimescola le carte: «Ti ho visto molto bene su Maradona - dice a Gentile - perciò prendi anche Zico. Oriali va su Eder». Sul  campo, gli azzurri fanno la parte delle vittime predestinate solo per 5 minuti. Poi, Conti opera un lungo dribbling sull'out destro, cambia gioco per Cabrini, che alza la testa ed effettua il traversone arcuato. E' un attimo: dietro ai difensori si materializza Rossi, che di testa va a cogliere l'angolo lontano. Incredibile: gol al Brasile e gol di Rossi! Il Brasile è un gigante colpito da un pallino di gomma: qualche secondo dopo ha già ripreso a infiorettare gioco con somma noncuranza dell'avversario. E fortuna che Serginho ciabatta malamente a tu per tu con Zoff. Poco dopo, però, Zico ruba il tempo a Gentile e chiama all'incursione Socrates: il "Dottore" accenna il cross e va invece beffardamente a trafiggere Zoff sul primo palo. L'illusione è durata poco. I brasiliani fanno girare palla con sicurezza, orchestrati dal centrocampo delle meraviglie: Falcao, Cerezo, Socrates, con gli apporti di Junior e Eder. Zico è una volpe: le sue giocate di prima mandano spesso a vuoto Gentile, che in una occasione gli si aggrappa alla maglia e gliela strappa. Ma la troppa sicurezza a volte tradisce: su un passaggio orizzontale di Leandro, Cerezo e Junior la prendono un po' alla leggera; fra i due sbuca Rossi, davanti al quale si spalanca il corridoio verso la porta avversaria. Breve corsa verso Valdir Peres, botta di destro e gol. Eccolo di nuovo il Pablito conosciuto in Argentina, il predatore che riesce a farti rimpiangere per la vita un attimo di disattenzione. Intanto, Collovati è uscito per infortunio e Bearzot ha mandato in campo il non ancora diciannovenne Bergomi, che i compagni, per l'aria seria e i baffoni, chiamano "zio". Tutto sembra filare liscio, nel secondo tempo, fino a quando il romanista Falcao trova una buco centrale al limite dell'aria e batte Zoff. La sua gioia sfrenata è la nostra disperazione, anche perché mancano solo 17 minuti. Il Brasile a questo punto vuole il trionfo, continua ad attaccare ache se il pareggio gli va benone. L'Italia guadagna un corner, la difesa respinge dalle parti di Tardelli, che tenta la battuta. Non sarebbe niente di straordinario, se in mezzo alla mischia non sbucasse un piede di Pablito a mettere dentro per la terza volta. Per Rossi un tris memorabile, ma per l'Italia non è finita. Gli attacchi brasiliani adesso sono disperati e affannosi. Zoff ha urlato come un ossesso durante tutta la partita e adesso sembra non aver più neanche un filo di fiato. Ma su un colpo di testa di Cerezo, si lancia sulla sinistra e blocca la palla proprio sulla linea, togliendo dieci anni di vita a milioni di italiani. Va via l'Italia in contropiede, Antognoni tira e fa gol, ma l'arbitro annulla per un fuorigioco che non esiste. E bisogna soffrire qualche altro minuto, prima del triplice fischio. I tifosi brasiliani, che nei giorni precedenti avevano riempito di musica e balli le ramblas, rimangono impietriti. Piangono, come piange Falcao in campo. La festa italiana comincia invece all'unisono a Barcellona come nelle nostre piazze. Ricompaiono bandiere tricolori tirate fuori da chissà quale anfratto. Rossi è un eroe. Perfino quelli che lo trattavano da bidone vanno a manifestargli la loro ammirazione. In novanta minuti ha rimesso la sua carriera su binari lasciati due anni prima. All'hotel Castillo adesso regna l'euforia. Gli azzurri ormai sono straconvinti che nessun ostacolo si potrà frapporre alla conquista del mondiale.In semifinale ci tocca la Polonia. Grave rischio: dopo le imprese con Argentina e Brasile, i polacchi, già incontrati nella prima partita, possono essere considerati solo una formalità da sbrigare in tutta fretta. Tanto più che il loro uomo migliore, il prossimo juventino Boniek, è squalificato. Qualche problema, in verità, ce l'ha anche Bearzot: Gentile non ci sarà, anche lui per squalifica; Vierchowod, suo eventuale sostituto, è infortunato; Tardelli e Oriali sono malconci, ma in grado di farcela. Al posto di Gentile gioca Bergomi. Barcellona è un forno a 40 gradi. Titola la "Vanguardia": «La temperatura più alta del secolo». Ribadisce il "Noticiero": «Un cinturone di fuoco attorno a Barcellona». Sale anche la temperatura degli italiani, il cui numero nel capoluogo catalano è aumentato notevolmente. Contro la Polonia si gioca nello sterminato Nou Camp. Stavolta è l'Italia a recitare la parte della favorita. I polacchi si difendono non senza rudezze, ma per il gol del vantaggio bisogna aspettare solo una ventina di minuti. Calcio di punizione dalla destra di Antognoni e palla in rete. Ci vorranno due o tre replay per accorgersi che su quella traiettoria è spuntato il piede rapinoso di Rossi per una deviazione fatale. Poco dopo, lo stesso Antognoni, ancora toccato dal gol annullatogli contro il Brasile, va a tentare un'improbabile conclusione, benché in ritardo sull'avversario. Risultato: squarcio sul piede e sette punti di sutura. Al suo posto, Marini. Sorte analoga tocca nel secondo tempo a Graziani, sostituito da Altobelli per un infortunio alla spalla. Ma l'Italia va spedita verso la finale, così come va spedito Conti sulla fascia sinistra, prima di crossare un morbido e comodo pallone, sul quale Rossi si inginocchia firmando il 2 a 0 definitivo. Cinque gol in due partite: nei giorni bui di Vigo, Rossi aveva cercato di profetizzare: «Giudicatemi alla fine. Credo che se segnassi un gol mi sbloccherei». Ma quanti gli avevano prestato fede?Uscendo dal campo, Zoff si avvicina a Bearzot, che si intrattiene con una televisione, e lo bacia. In quel gesto fra friulani schivi c'è la compattezza e la coesione di tutto l'organico. Al di là delle scelte tecniche, sembra questo il tratto distintivo di questa nazionale. Una finale di straordinario valore simbolico, visto che metterà di fronte due grandi della storia del calcio: Italia e Germania Ovest. Entrambe le nazionali aspirano a raggiungere il Brasile con i suoi tre titoli mondiali, I tedeschi hanno agganciato la finale ai rigori contro la Francia, dopo essere stati in svantaggio di due gol ai tempi supplementari. Ce n'è abbastanza per alimentare la loro fama di irriducibili. Ma l'Italia ormai ci crede se ci fosse uno strumento per misurare la carica agonistica, con gli azzurri scoppierebbe. Ecco Madrid, finalmente: la comitiva italiana alloggia all'Hotel Almeda, già prenotato dai brasiliani, Ma guarda un po' come va a ripetersi la storia: nel '38, prima della semifinale Italia-Brasile, Pozzo andò dai brasiliani che in vista della finale avevano prenotato l'unico aereo per Parigi, a chiedere di cedere i posti nel caso di vittoria italiana, «Spiacenti - risposero - ma non avete alcuna possibilità di batterci». L'Italia vinse 2 a 1 e andò a Parigi in treno. Il baluardo del silenzio stampa non crolla neanche a un giorno dalla finale: l'unica deroga viene concessa a Bergomi, che così può spiegare le sue sensazioni di diciottenne nella mischia del mondiale. Da Roma, arriva anche Pertini. Il presidente si era sempre rifiutato di raggiungere la Spagna, temendo, in caso di eventi negativi, di fare la parte del menagramo. Ha ceduto solo all'invito espresso del re Juan Carlos. Non ha questi problemi invece la folla variopinta degli italiani riversatisi da Barcellona nella capitale. Bearzot e il suo collega Derwall hanno un grande problema ciascuno: Antognoni da una parte, Rummenigge dall'altra. Il regista azzurro soffre ancora per l'infortunio subito in semifinale; l'attaccante tedesco ha problemi muscolari, ma vuole esserci lo stesso, tanto più che contro la Francia il suo ingresso è stato provvidenziale. Le decisioni dei due ct sono opposte: fuori Antognoni, dentro Rummenigge. Per sostituire il suo uomo, Bearzot rimescola parzialmente le carte: ignora Dossena, il sostituto naturale, e Marini, altro centrocampista, facendo invece avanzare Cabrini. In difesa inserisce di nuovo Bergomi. Non solo: al giovanissimo difensore Bearzot assegna il controllo di Rummenigge, l'uomo di maggior spicco, che con cinque reti contende a Rossi il titolo di capocannoniere. Alla vigilia i tedeschi sono sicuri di farcela. Ma il giorno della partita, uscendo dall'albergo, ricevono subito un auspicio infausto: il percorso che porta allo stadio è quasi interamente invaso da striscioni e bandiere italiane. Certo, non basta questo a piegare una squadra zeppa di veterani. A parte capitan Breitner, già punto di forza della Germania Ovest campione nel '74, c'è gente come Stielike, "cattivo" per eccellenza, o come il portiere Schumacher, che in semifinale ha deturpato l'arco dentario a Battiston senza battere ciglio. La preponderanza del tifo italiano è riscontrabile anche all'interno del monumentale Bernabeu. Ma una partita si gioca sul campo, e sul campo le cose per l'Italia stentano a mettersi bene, tanto più che dopo sette minuti Graziani, dolorante, deve lasciare il campo. Lo sostituisce Altobelli, così com'era accaduto contro la Polonia. Il duello Bergomi-Rummenigge pende subito dalla parte dell'italiano, anche perché Kalle mostra tutti i suoi acciacchi. Intanto, nei pressi dei due, aleggia un ritornello costante: «Calmo, zio, calmo». Sono Zoff e Scirea che incoraggiano il giovane compagno di reparto. Si lotta su ogni pallone, senza troppo costrutto. Dopo poco più di venti minuti, la mole del decatleta Briegel crolla sul peso leggero Conti: rigore. Va Cabrini. Davanti a lui un glaciale Schumacher. Breve rincorsa, un sinistro scomposto e arrotato all'eccesso, che termina a lato. Cabrini rimane in trance, mentre il primo tempo va a finire senza altri scossoni. Negli spogliatoi i compagni scuotono Cabrini e si preparano alla stretta finale senza più pensare all'occasione del rigore. Tutt'altra aria alberga fra gli avversari, un po' sorpresi dalla solidità morale degli azzurri: «Di solito nell'intervallo discutevamo - ricorderà poi Rummenigge - ognuno dava consigli, suggerimenti. Quella sera invece non fiatava nessuno. Un silenzio quasi irreale, pareva di essere sotto di tre o quattro gol, invece eravamo sullo 0-0, potevamo ancora giocarci il titolo. Niente. Solo le parole di Derwall, ma nessuno di noi aprì bocca». Le paure si materializzano dopo undici minuti del secondo tempo. Gentile mette in area un pallone, Cabrini va per colpirlo, ma si sente travolgere da una furia: è Rossi, che con un mezzo tuffo incorna e mette dentro: 1-0, ancora per merito di Pablito, fin lì annullato da Karl Heinz Forster. Ora la Germania attacca e scopre il fianco. Passa solo una decina di minuti, prima che Scirea, autore dell'ennesima magnifica prova, scenda palla al piede. Il libero azzurro, nei pressi dell'area avversaria, prima scambia con Bergomi. poi pesca al limite Tardelli. Questi ha un controllo impreciso, poi, prima che la palla gli sfugga, l'arpiona con un sinistro micidiale, che batte sul palo e lascia di sasso Schumacher. L'incontenibile, commovente incontrollata esplosione di gioia del giocatore diventerà il simbolo del mondiale. il resto è apoteosi azzurra: Conti galoppa sulla destra e taglia basso per Altobelli. Controllo a eludere il portiere e palla per la terza volta nel sacco. Esulta anche Pertini, che salta in piedi e fa di no col dito: «Non ci prendono più». Il gol della bandiera di Breitner arriva solo a sette minuti dalla fine, ma sono sette minuti di sofferenza per il pubblico italiano, che teme una delle rimonte impossibili di cui è piena la storia della Germania. Il triplice fischio del brasiliano Coelho è quindi una liberazione. Campioni del mondo! Zoff solleva la Coppa in un gesto che dodici anni prima, sull'erba dello stadio Azteca, ha visto fare a Carlos Alberto, capitano del magico Brasile di Pelè. Quel giorno era in panchina. I suoi compagni di allora sono da anni allenatori, dirigenti o chissà che. Dino invece, a quarantanni anni vive la massima soddisfazione della carriera .I leoni in gabbia di Vigo sono ora sul tetto del calcio. Hanno cominciato a vincere quasi per rabbiosa ripicca, poi hanno abbattuto ogni ostacolo, a dispetto di un cammino difficile. Tornano in Italia, a Roma, accolti da una folla in festa. Con loro viaggia anche Pertini, che durante il volo, in coppia con Zoff, dà vita a una memorabile sfida a scopone contro Bearzot e Causio. Con la vittoria spagnola il calcio italiano cancella dopo due anni la depressione indotta dallo scandalo scommesse. Le vicende del pallone attireranno come mai in passato il pubblico femminile, allargheranno il loro già robusto spazio sui giornali e invaderanno gli schermi televisivi, fino a toccare livelli esagerati. La banda Bearzot perderà lentamente i pezzi fino al fallimento dei mondiali messicani del 1986. Il suo ciclo, iniziato con la grande avventura argentina del '78, è in effetti terminato proprio nella magica notte del Bernabeu...

La Grande Inter di Moratti ed Herrera

A metà degli anni sessanta ci fu una squadra che dominò incontrastata in Italia, Europa e nel mondo: l'Inter di Herrera e Moratti, la Grande Inter...Mazzola ascolta come in trance, mentre cerca inutilmente di scuotersi. Ma come si parla a un mito? Eppure quando Puskas lo aveva avvicinato negli spogliatoi non si era sentito così impacciato. «Conoscevo tuo padre, ho giocato contro di lui», gli aveva ricordato, affabile, l'antico capitano della mitica Honved, l'ufficiale dell'armata ungherese in fuga attraverso l'Europa dopo la rivolta del '56. E lui, Sandrino, si era trovato a rispondere con un pizzico di ribalda ironia: «Mio padre l'aveva battuta, Colonnello». Puskas era scoppiato a ridere. La presenza di Di Stefano, invece, lo paralizza. Brillano le luci della grande Ruota nella sera morbida del cielo del Prater. Nella penombra luminosa dello stadio gli uomini in maglia bianca spiccano nitidi mentre si avviano al centro del campo. E intanto scrutano, con fastidio, le facce anonime degli avversari che l'illusione ottica fa sembrare anche meno numerosi nelle loro maglie scure. Tutti illustri sconosciuti, per lo più, tranne uno. Quello lo conoscono bene: è, come loro, un "Grande di Spagna". Quasi come loro. I calciatori in maglia bianca sopportano pochi paragoni al mondo. Loro sono, presi in blocco, una leggenda vivente. Anche dall'altra parte, in verità, c'è una leggenda. Ma è solo un'eredità. Una pesante eredità. Il capitano dei bianchi ci pensa un momento, accigliato e scontroso, mentre cerca tra le facce scavate dai fari, poi si avvia, deciso, verso il gruppo avversario. Il ragazzo alto e magro dagli zigomi marcati e gli occhi grandi lo vede e, inconsciamente, rallenta il passo, staccandosi dai compagni. Poi si ferma del tutto, e lo guarda venire. L'uomo è di statura media, un viso abbastanza banale e la fronte stempiata. E un accenno di pancetta nel corpo rotondo. Ma porta come nessuno la camiseta bianca del Real Madrid. Per un attimo si arresta e lo fissa, intenso e severo, nella luce artificiale e fredda, poi chiude veloce lo spazio che ancora li separa e tende la mano: «Sono Alfredo Di Stefano. Conoscevo tuo padre. Sii degno di lui». Sandrino Mazzola prende meccanicamente la mano tesa mentre cerca di scuotersi, e richiama alla mente uno spagnolo scolastico per rispondere qualcosa di sensato. Ne esce soltanto un emozionato, banalissimo, «gracias». Alfredo Di Stefano è sempre stato il suo idolo.Le 19,30 sono passate da poco a Vienna. E' il 27 maggio 1964. Dagli altoparlanti dello stadio lo speaker annuncia il programma della serata. Fra qualche minuto, sull'erba del Prater, l'Internazionale di Milano, campione d'Italia, sfiderà i campioni di Spagna del Real Madrid per contendersi la Coppa nata in un bistrot parigino, quasi una decade fa, dalla fervida mente di Gabriel Hanot. Per gli italiani è la prima partecipazione al torneo più importante del continente europeo. Il Real Madrid, invece, è nato con esso, con la Coppa Europa è uscito dai ristretti confini spagnoli per esportare nel mondo il suo fùtbol-arte. E ora partecipa per la nona volta alla competizione: ha giocato sei finali e ne ha vinte cinque, e stasera cerca, sotto gli occhi di venticinquemila italiani che hanno trasportato San Siro sulle rive del Danubio, una vittoria particolare, la vittoria sul tempo. Seduti accanto agli italiani, cinquecento spagnoli attendono l'evento. Lo speaker intanto scandisce le formazioni delle due squadre.INTER: Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso.REAL MADRID: Vicente, Isidro, Pachin, Muller, Santamaria, Zoco, Amancio, Felo, Di Stefano, Puskas, Gento.Testo di Maria Teresa Lattanzi. Dalla panchjna dell'Inter due occhi freddi in un volto grinzoso, da zingaro, osservano, scontenti, la scena. Anni prima quella mano era stata negata a lui, platealmente. E Helenio Herrera, detto H.H. oppure "il Mago", non è tipo da dimenticare o perdonare le offese. Al massimo finge di ignorarle, se gli conviene, stipandole nella memoria. E, inoltre, ora lo preoccupa il comportamento di Mazzola. Nonostante un cervellino intelligente e razionale, quel ragazzo nutre una pericolosa visione romantica del calcio e dei suoi eroi, e lui non vorrebbe ritrovarselo imbambolato sul campo. La partita che sta per iniziare è troppo importante: Helenio Herrera questa sera ha molte vendette da compiere. E un sogno da realizzare: distruggere il Real Madrid. Portare a termine il lavoro iniziato sulla panchina del Barcellona, dimostrare al mondo, e agli spagnoli che non lo avevano capito, che lui non è un ciarlatano ma un uomo che ha il coraggio delle sue idee, che è arrivato al successo soffrendo e penando. Il successo va a chi se lo merita. E Helenio Herrera lo merita. Con lui il Barcellona aveva vinto un campionato e poi un altro. Una Coppa di Spagna e poi un'altra. Ma a loro non bastava, perché il Real Madrid intanto era il padrone d'Europa. E allora Herrera aveva promesso la Coppa dei Campioni. Ma il suo Barca aveva perso a Madrid, nella semifinale che la sorte gli aveva offerto, e poi anche al Camp Nou. La stampa lo aveva flagellato, e i tifosi lo avevano inseguito, furenti, lungo le ramblas. Così se ne era andato, ma non aveva dimenticato. Il Real è la vostra ossessione, signori, e anche la mia. E troverò il sistema per batterlo, e nutrirmi della sua gloria. Perché la gloria es dinero.Era emigrato in Italia, alla corte di Moratti, munifico signore rinascimentale del calcio milanese, che da anni aspettava, inutilmente, uno scudetto. Glielo aveva regalato lui, H.H., infine, al terzo tentativo, attraverso un mare di polemiche e una girandola di acquisti provati e scartati. E l'avversione di stanche primedonne che non ne volevano sapere del suo modo maniacale di intendere il calcio, dei suoi allenamenti snervanti, della sua concentrazione feroce. Tutte uguali le primedonne, erano così anche i suoi ungheresi del Barca, contavano solo sul proprio talento. Ma il calcio moderno è ritmo, signori, ritmo più fantasia. E a volte sono più utili gli onesti faticatori di certi campioni sfaticati. All'Inter, sostenuto da Moratti, alla fine l'aveva spuntata, si era liberato di Angelillo e degli "angeli dalla faccia sporca", e ora era qui, nella notte di Vienna, con una squadra che era un mix perfetto di talento e aggressività amalgamati con ferrea disciplina. Era qui per sconfiggere il Real Madrid nella "sua" Coppa dei Campioni. Sono così digiuni di calcio internazionale! Ma in campo ci sono Suarez e Picchi, si rassicura Herrera. Picchi, il livornese furente, che lui ha scoperto e valorizzato, non lascerà la trincea, e non permetterà agli altri di farlo. E Luisito Suarez, il Grande di Spagna, che Helenio si è portato dal Barcellona, pagherebbe di tasca sua per battere il Real Madrid. Quei due sono gli allenatori in campo. Ma non sono loro la chiave della serata. Vagando per il campo gli occhi di Herrera si fanno dolci per Tagnin. Mentre risuona il fischio d'inizio lui è già appiccicato a Di Stefano, pronto a seguirlo in ogni parte del campo: il più umile dei faticatori interisti sulla strada di Alfredo il Grande. In tanti hanno gridato alla follia, ma Herrera ha fiducia nell'onesto mestiere di Tagnin. Lo aveva ripescato nel purgatorio delle serie minori che scivolava oscuramente verso fine carriera dopo una squalifica di tre anni, lo aveva ricostruito nel fisico e nel morale, e poi proiettato nell'Olimpo del calcio internazionale. Non lo aveva mai tradito, e anche stasera avrebbe fatto la sua parte, in tutta umiltà. Anche Burgnich lo aveva ripescato dalla B, scartato dalla Juventus, e ora era la roccia del suo sistema difensivo. Questa sera si sarebbe preso cura di Gento, la veloce e velenosa ala sinistra del Real che, come Di Stefano, aveva alzato al cielo cinque Coppe dei Campioni, tutte quelle che il Real Madrid aveva vinto nella sua storia. Anche su Burgnich si poteva contare. Sistemandosi comodo in panchina Herrera guarda, senza preoccupazioni, la prima ondata madridista infrangersi contro la sua difesa. Gli va bene così, lui preferisce difendersi.Riuscire a passare nel primo tempo: l'ossessione spagnola è questa. Al Real Madrid il gioco dell'Inter suscita più timore che ammirazione. E l'undici madrileno, Di Stefano in testa, si prefigge di consacrare in ambito europeo la superiorità del proprio principio, un principio che si fonda sulla formula offensiva, sulla creazione del gioco di manovra a ondate successive, e le incursioni avvolgenti delle due ali. Ma questa è tattica, e la tattica si attua sul campo, e si è sempre in due a darle corpo. Di Stefano sa che non sarà un gioco facile. Sulle piste del grande Alfredo, che punta dritto al cuore della difesa interista, Tagnin si sente sorprendentemente calmo. Almeno sul campo non ha più addosso la pressione dei giornalisti. Da giorni son tutti lì a chiedergli se ha mai giocato contro Di Stefano. Siamo matti? Quello è sempre appartenuto, calcisticamente parlando, a un altro pianeta. Lo ha visto, questo sì, tante volte in televisione. Cosa prova? Paura no, emozione neanche. Curiosità, e molta. E la certezza che sarà un maledetto affare tenerlo d'occhio. Per ora, però, li stiamo controllando bene. Dopo la prima ondata il Real si raccoglie, si fa più guardingo. La cosa preoccupa Herrera che cerca di indovinare il disegno tattico del suo collega spagnolo. Sembra che Munoz non abbia altri progetti, al momento, che le marcature a centrocampo. Ma ammesso che, conoscendolo bene, sappia come marcare Suarez, gli spagnoli non hanno la minima idea di cosa sia Mandrake nelle sue giornate di vena. Già al 5' Corso è lì, che interrompe il forcing madrileno con una stupenda punizione da oltre venticinque metri. Herrera ha un sogghigno dolceamaro. Questa sera se lo sorbiranno loro il maledetto mancino pieno di talento e di pigrizia che si fa beffe di lui e gli sbilancia la squadra. Ma è il cocco del presidente, e lui, Herrera, deve tenerselo per forza, e fare miracoli di ingegneria calcistica per raddrizzare un modulo zoppo. Un modulo che raggiunge la perfezione solo perché davanti a una difesa impenetrabile, magistralmente orchestrata da Armando Picchi, opera un Suarez immenso capace di sacrificarsi in copertura e costruire gioco con la potenza di un motore diesel e la classe della sua regia che illumina di lanci lunghissimi e precisi il contropiede della gazzella nera Jair, del dribbling ubriacante di Mazzola e della fatica puntuale di Milani. E del terzino fluidificante Facchetti. Ma in questa notte di maggio, mentre Suarez se ne sta prudentemente raccolto a coprire la difesa, e Mazzola latita, svanito per il campo, il fragile Corso giganteggia nel deserto del centrocampo, e gioca soffici palloni vellutati per parabole impossibili. Ora è ancora in azione, in combinazione con Facchetti e Guarneri che hanno abbandonato la trincea per cercare gloria in avanti. Herrera non ama quello che vede. Le sortite offensive dei due talentuosi della sua difesa rischiano di creare buchi pericolosi. Facchetti deve marcare Amancio, l'ala giovane e velocissima del Madrid, e dovrebbe essere abbastanza per una sera. Guarneri, poi, controlla Puskas, che avrà pure i suoi anni ma anche un tiro micidiale e un intatto fiuto del gol. Alfredo Di Stefano. La stella del Real fu preso sorprendentemente in consegna dall'umile Tagnin: la mossa di H.H. risultò vincente Brividi di apprensione gelano il Prater nerazzurro alla mezz'ora, quando Amancio semina il terrore nella retroguardia interista. Due minuti dopo è Picchi a intervenire, a portiere battuto, con uno straordinario salvataggio. Ma a poco a poco si spegne l'impeto del Real Madrid. E intanto si è svegliato Mazzola, mentre continua a brillare Corso. E' dal suo piede, "il piede sinistro di Dio", che al 43' parte il lancio che Guarneri vola a raccogliere mentre sulla sinistra scatta Facchetti che riceve e poi passa indietro a Mazzola. Sandrino aggancia al volo e lascia partire un magnifico pallone che si insacca alla destra di Vicente. Per il Real Madrid è come una pugnalata. Le sue stelle di prima grandezza stanno spegnendosi, fisicamente non ce la fanno quasi più. Ma si battono con orgoglio e dignità. L'inizio della ripresa è un festival di gioco merengue: al palo colto da Gento si aggiunge quello colto da Puskas, è un palo come se ne vedono pochi in un campo di calcio, il portiere era battutissimo e il Real avrebbe potuto pareggiare. Invece arriva, al 17', il gol di Milani. Quando una squadra conduce per due a zero va sul velluto, osannano i tifosi. Ma quando, sette minuti dopo, Felo segna il gol del 2-1 il Real si scatena. E allora l'Inter comincia a tremare. La squadra bianca scende in massa verso l'area interista e la ragnatela di passaggi che partono dai terzini sembra ogni volta che si concluda a rete. Sugli spalti esplodono l'ammirazione degli austriaci e le speranze degli spagnoli. E' dal 1960 che l'aficiòn madridista continua a vivere un sogno: tornare al Real Madrid dei cinque titoli europei, porre fine ai regni effimeri delle squadre di un giorno che ne hanno usurpato il titolo negli ultimi tre anni. Ma la nostalgia è a volte tanto cieca come l'amore, pensa Helenio Herrera. A guardare bene si vede che Puskas non riuscirà a piazzare il suo tiro, che Gento non è più Gento, che Di Stefano non ha spazio, e che gli altri, malgrado i dribbling di Amancio e i raffinati palleggi di Muller, sono troppo pochi per avere ragione di Burgnich, Facchetti, Guarneri e Picchi. La difesa dell'Inter si muove all'unisono, elastica e compatta, come Herrera ha insegnato, e in certi momenti par di sentire un'orchestra, tanto perfetto ne è il ritmo. Si erano sommati a Gento e Di Stefano: l'uruguayano Santamaria, Kopa e il profugo Puskas, per esempio, e il Real Madrid era diventato il miglior ambasciatore di Spagna. Il regime franchista era al bando da un'Europa uscita dalla guerra nazifascista, ma ovunque vada il Real le folle si scatenano quando gioca il grande Di Stefano. Ma gli assi madrileni sono soprattutto gli ambasciatori di un calcio inteso come arte. Un calcio che finisce a Vienna. Al fischio finale dell'arbitro, Moratti corre sul campo in mezzo ai suoi ragazzi: e i giocatori se lo issano sulle spalle, il presidente, mentre i tifosi impazziscono sugli spalti, e Picchi alza in alto, sempre più in alto, l'enorme Coppa d'argento. Dall'altra parte del prato i giocatori del Real Madrid, tutti intorno ad Alfredo Di Stefano, escono a testa bassa dal campo. Per un momento Puskas si volta a guardare, triste, i nuovi padroni d'Europa, poi segue i suoi compagni. Dal Prater di Vienna l'Inter vola verso l'Avellaneda di Buenos Aires dove a settembre si gioca la partita di andata della Coppa Intercontinentale. Nessuna squadra italiana ha mai vinto quel trofeo. L'anno precedente il Milan era stato battuto dal Santos e gli argentini dell'Independiente non sono meno pericolosi dei brasiliani. E certamente più rognosi. Lo stadio è una bolgia dantesca, e i giovani campioni d'Europa all'andata limitano i danni, perdendo 1-0. Al ritorno a San Siro superano per 2-0 i campioni sudamericani. Ma non basta. Il regolamento non prevede ancora il calcolo della differenza reti, e si deve ricorrere allo spareggio. La "bella" si gioca a Madrid, sul campo del Real, e Corso regala ancora, ai fini palati spagnoli, saggi d'alta scuola, e agli italiani il gol che vale il titolo mondiale. Solo il Bologna contrasta il cammino dell'Inter e ne interrompe il volo all'Olimpico di Roma nello spareggio-scudetto 1964. Herrera urla al furto e, non pago dei titoli euromondiali, parte alla conquista del titolo italiano per il 1965. Le cose vanno male all'inizio. Alla fine del girone d'andata l'Inter è distanziata di ben cinque punti dal Milan che presenta in panchina la sua mitica bandiera: Nils Liedholm. Alla diciannovesima giornata il distacco è addirittura di sette punti. Sembra la fine del discorso-scudetto, invece è l'inizio della fine del sogno milanista. Il mago ordina e programma il miracolo, e dà appuntamento agli increduli alla fine di maggio. E alla fine di maggio l'Inter si presenta con tre punti di vantaggio sul Milan. L'impresa è compiuta. Anche in Coppa dei Campioni c'è bisogno di un piccolo miracolo. Era cominciato tutto molto bene con la formazione appena ritoccata dove Bedin aveva sostituito il vecchio Tagnin, e al centro dell'attacco lo spagnolo Peirò aveva preso il posto dell'umile e tenace Milani, per le partite di coppa; in campionato invece, dove era possibile schierare solo due stranieri, è Angelo Domenghini, da Bergamo, il nuovo compagno di Mazzola. L'Inter regola agevolmente la Dinamo Bucarest e i Rangers di Glasgow, poi s'inceppa a Liverpool. Sono le semifinali, e l'Inter perde 3-1. Sembra finita. Lo pensa anche l'allenatore degli inglesi che ha l'impudenza di avvicinare Herrera per chiedere notizie del Benfica, la squadra già qualificatasi per la finale, «dato che dobbiamo incontrarlo sicuramente, visto come è andata con voi».Il Mago negli spogliatoi come una furia: «E mi fate subire un affronto del genere! A questi, quando vengono a San Siro, dovrete rifilare almeno tre gol». Quindici giorni dopo, a Milano, è un incredibile 3-0 che proietta i nerazzurri nella seconda finale consecutiva. E' anche la seconda Coppa dei Campioni consecutiva. La conquistano, sempre a Milano, battendo il Benfica con un gol di Jair, in una partita segnata dall'espulsione del portiere lusitano. «Ora ci basterà tirare in porta per segnare», pensarono i giocatori. Non fu così. Si rimase sull'uno a zero. L'Inter che ritorna all'Avellaneda per la seconda volta in cerca del titolo mondiale è ben più perentoria di quella precedente. Gli argentini li ha già regolati a Milano, con un comodo 3-0, e non si lascia impressionare dall'assalto violento del pubblico. Picchi ricaccia i tifosi ai limiti del campo, e Sarti para tutto, anche le biglie che piovono dagli spalti. Alla fine è 0-0 e il secondo titolo mondiale.IL 1966, l'anno della Corea, vede l'Inter trionfare facilmente in campionato, ma in campo europeo c'è un imprevisto stop nei quarti di finale. E' ancora il Real Madrid sulla strada dei neroazzurri, un Real largamente rinnovato: della formazione che dieci anni prima, a Reims, aveva spaventato i francesi e posto le basi della propria leggenda era rimasto solo il vecchio Gento. L'eliminazione è colpa soprattutto dell'errata impostazione tattica di Herrera che a Madrid, in un eccesso di prudenza, presenta Bedin all'ala sinistra. Dal Bernabeu l'Inter esce sconfitta 1-0 e nel ritorno a San Siro non va oltre lo 0-0. Il Real Madrid ha la strada spianata verso la finale di Bruxelles: la partita contro il Partizan è tra le più squallide, ma alla fine Gento alza per la sesta volta al cielo la Coppa dei Campioni, l'unico uomo al mondo ad aver fatto tanto. Comincia la stagione 1967: la più esaltante e la più triste. In campionato l'Inter sembra non avere avversari, e in Coppa dei Campioni l'avvio è una cavalcata travolgente. Si comincia contro la Torpedo di Mosca, una squadra fortissima che perde a Milano solo per 1-0; e al ritorno, nel gelo della Russia, l'Inter realizza, secondo molti, «la più perfetta partita difensiva di tutti i tempi», Picchi e Guarneri dominano, gli altoparlanti dello stadio alla fine spiegano al pubblico che «è difficile trovare nella storia del calcio una difesa più forte di quella della squadra italiana».Il sorteggio non è benigno con i milanesi di Herrera, dopo la Torpedo assegna loro un'altra forte squadra. Il Vasas di Budapest non perde sul suo campo da ventidue mesi ma, quando l'Inter si presenta in terra magiara, dopo aver vinto a Milano per 2-1, l'imbattibilità finisce: è 2-0 per i nerazzurri e i due gol segnati da Mazzola al Nepstadion di Budapest, uno dei templi del calcio europeo, resteranno nella memoria come due tra le più belle reti di ogni tempo. La prima specialmente, con quel tempo lunghissimo dove i secondi diventano minuti e i minuti ore, e Mazzola vagabonda dal centro alla sua destra, fino all'altezza della bandierina e ritorno, dribblando uno dopo l'altro tutti gli avversari che gli vengono incontro, alla ricerca del momento migliore per un tiro che sembra non dover giungere mai. Quando infine il pallone gonfia la rete nel silenzio attonito dello stadio, alle orecchie di Sandro giunge soltanto la voce arrabbiata di capitan Picchi:«Se non segnavi ti ammazzavo». Aveva lasciato la trincea, il capitano, e venuto avanti passo dopo passo ordinando "tira, tira, tira", e alla fine si era ritrovato nel pieno dell'area avversaria, lui che non abbandonava mai la propria metà campo. Per il terzo turno il sorteggio affianca ancora una volta al nome dell'Inter quello del Real Madrid. Sono come tre finali, una di seguito all'altra, e sono l'ultimo trionfo dell'Inter in Europa. Dopo aver regolato gli spagnoli a Milano per 1-0, Helenio Herrera assapora la soddisfazione di espugnare il mitico stadio Bernabeu, battendo il Real per 2-0. Ma la fatica di una stagione massacrante, che vede la squadra impegnata su molteplici fronti (dopo il disastro coreano è stata trapiantata praticamente in blocco in nazionale), comincia a farsi sentire: il CSKA viene eliminato a fatica in tre partite.E poi si arriva a Lisbona. Il Celtic non è nessuno sui palcoscenici europei e, anche se l'ambiente è ostile, la partenza sembra favorevole ai nerazzurri che dopo sei minuti sono in vantaggio con un gol di Mazzola, su rigore. Ma la grande avventura cominciata a Vienna in una magica sera di maggio finisce lì, sulle rive dell'Atlantico. L'assenza di Suarez, così indispensabile nel modulo dell'Inter, l'azione incessante degli avversari, e un'improvvisa stanchezza che svuota le energie dei giocatori determinano il tracollo: alla fine è 2-1 per il Celtic. E' il 25 maggio 1967.Una settimana dopo, a Mantova, l'Inter è ancora sotto shock, piena di rabbia, ma anche di paura. Si gioca l'ultima partita di campionato e la squadra nerazzurra precede la Juve solo di un punto, mentre il Mantova naviga in una tranquilla posizione di centro classifica. L'Inter attacca subito, in massa, ma la porta di Zoff sembra stregata, Mazzola colpisce anche la traversa dopo aver superato il portiere con un pallonetto: è il segnale definitivo della fine, non ci sono appelli, il bel giocattolo chiamato Inter è andato in tilt. A quattro minuti dal termine arriva addirittura la beffa: segna il Mantova, con l'ex nerazzurro Beniamino Di Giacomo. Negli spogliatoi Mazzola piange, e sulle sue spalle piange anche Di Giacomo, che ha dovuto segnare il gol più ingrato della sua vita. La festa è finita.

1.Fc Union Berlin. Nuovo stadio e tanta storia

Nello stesso giorno l’ultima mano di vernice allo stadio, il taglio del nastro e l’amichevole di lusso. Per gli outsider orientali del calcioberlinese comincia una nuova storia. Parliamo della seconda squadra di Berlino, l’1. Fc Union Berlin, messa in ombra nell’ultimo ventennio dall’ascesa dei cugini occidentali dell’Hertha, tornati a disputare campionati di buon livello in Bundesliga grazie ai potenti investimenti di grandi gruppi industriali tedeschi. Ai supporter dell’Union, invece, bastano le mani e l’orgoglio. Il secondo è servito a tener duro negli anni bui, le prime hanno lavorato duramente per ristrutturare lo stadio di casa. Ha un nome romantico, An der Alten Försterei, letteralmente “alla vecchia foresteria”, un nido del football che sembra uscito dagli almanacchi storici del calcio inglese, con le tribune a ridosso del terreno di gioco e un tabellone azionato a mano, con i numeri dei gol stampati sul cartone che scorrono come su un vecchio calendario ingiallito. Un pezzo originale di Ostalgie rivisitato però vent’anni dopo la caduta del muro, tempi in cui anche all’est, se si vuole, è possibile realizzare i propri sogni. Il riscatto di questo mito calcistico della Germania orientale corre sul doppio binario di una società rimessa in sesto dopo i bilanci in rosso degli anni passati da un presidente che ha passato la sua giovinezza sui gradoni dell’Alte Försterei e di una tifoseria genuina che ha saputo rinverdire la fama ribelle e alternativa che l’accompagnava anche negli anni della Ddr. Così nell’anno calcistico 2008-2009, gli undici in campo hanno riportato la squadra in seconda Bundesliga, la nostra serie B, vincendo con tre giornate d’anticipo il campionato regionale zeppo di vecchie glorie della Ddr come Carl Zeiss Jena o Dinamo Dresda. E migliaia di tifosi al sabato riempivano lo Jahn-Sportparkstadion del quartiere di Prenzlauerberg, un tempo dimora dell’odiata Dinamo Berlino, la squadra della Stasi, e la domenica si presentavano puntualmente all’Alte Försterei con picconi, trapani e cazzole per rimettere in sesto il loro vecchio stadio. Una lista lunga duemila nomi, meglio soprannomi, comuni come Benni o Mulli o Kalle o Schnalle, nomignoli da classe operaia, appena usciti dalle case del quartiere Köpenick, estrema periferia orientale di Berlino, dove si trova lo stadio della foresteria e l’anima profonda di questa squadra-famiglia. Tifosi artigiani, carpentieri di professione o volontari del cemento che per 365 giorni hanno regalato il loro tempo libero per rimettere in ordine uno stadio glorioso che se ne veniva giù a pezzi. Avevano atteso i soldi del comune, sempre promessi e mai arrivati, e alla fine hanno deciso di seguire l’esempio del presidente: rimboccarsi le maniche e far da soli. E chi non aveva alle spalle una carriera di muratore ha contribuito alla causa preparando cibo e dolci, portarndo birra e wodka per sostenere gli eroi veri, quelli che in un anno hanno buttato giù le vecchie gradinate e innalzato uno stadio nuovo di zecca. Così quando l’Union squadra è salita in seconda serie, i giornali nazionali hanno voltato lo sguardo verso questo angolo di Berlino est e hanno scoperto che il miracolo era dietro i successi sul campo. Lì, sul rettangolo di gioco dello Jahn-Sportparkstadion temporaneamente usurpato ai nemici della Stasi, segnavano nomi sconosciuti al grande calcio e qualche chilometro più in là, all’Alte Försterei, altri nomi sconosciuti davano di gomito per costruire quello che la politica aveva promesso e mai dato. Così, quando alla fine è arrivato un piccolo contributo dal comune, i tifosi-muratori hanno continuato a far da sé, senza ricorrere ad alcuna ditta specializzata, se non per l’installazione della copertura, operazione troppo delicata anche per i professionisti. Sembra il lieto fine di un film di Ken Loch o di un libro di Nick Hornby, con la squadra operaia che va in paradiso e i tifosi-lavoratori che si godono le partite stretti in piedi sui nuovi gradoni dello stadio. Tra fuochi pirotecnici e vecchia passione, la notte di Köpenick regala emozioni indimenticabili. Per la partita di inaugurazione è stata invitata proprio l’altra squadra di Berlino, l’Hertha, per rispolverare un derby che mancava dal 1990. Gossy è uno dei capisquadra che ha guidato la pattuglia di volontari nei lavori. Strabuzza gli occhi mentre distribuisce pacche sulle spalle alle decine di tifosi che vengono a fargli gli auguri. Per tutti ha una parola di incitamento, come fosse ancora sul cantiere. «Dei giornalisti sono venuti a chiedermi se ogni volontario ha ricevuto un biglietto omaggio per questa festa. Gli ho risposto: ma ci avete visto in faccia? Noi siamo quelli che hanno costruito lo stadio, i biglietti ce li siamo comprati e pagati. A noi basta questo monumento qua». Il monumento è una stele di ferro su cui campeggia un grande elmo da operaio rosso fiammante come i colori dell’Union. Sulla stele sono stampigliati, a futura memoria, tutti i nomi dei tifosi operai che hanno prestato la loro opera all’impresa. «Si è trattato soprattutto dei tifosi della vecchia generazione», spiega con un po’ di rammarico Jens Martin, 42 anni, che scelse l’Union perché era la squadra ribelle che non piaceva al regime. «Le nuove leve del tifo sono di pasta diversa, subiscono il mito ultras, stanno un po’ cambiando la natura del nostro pubblico. Noi amiamo ancora tifare all’inglese, senza guide prestabilite. A uno gli viene in mente un coro, parte e gli altri seguono. Non ci sono tabelle prestabilite». Più un tifo "per" che un tifo "contro". Un esempio? «Una volta avevamo una certa simpatia con l’Hertha», ricorda Jens Martin «cantavamo Union e Herta unite perché loro erano quelli dell’ovest e la cosa faceva arrabbiare i capi della Ddr. Poi negli ultimi anni gli occidentali hanno avuto soldi e investimenti, sono cresciuti e hanno fatto proseliti anche qui da noi. E questo ha raffreddato i rapporti». Il tifo all’inglese è un po’ una fissa qui a Köpenick. Lo stadio è bello e spartano, rifatto per tre quarti. Resta solo da rinnovare la tribuna centrale. Il progetto finale prevede una facciata monumentale, in mattoni rossi, con il logo della squadra come frontale esterno e dentro una gradinata spiovente sul campo da gioco. Si attendono nuovi soldi per completare il lavoro: più british di così! Questa stella dell’est ha i suoi miti e le sue tradizioni, che non vuol svendere a nessuno, neppure ai nuovi sponsor che oggi accorrono con sonanti contributi e con la promessa di portare l’Union ancora più in alto. Loro sono gli Eisern, uomini di ferro, capaci di gridare dal primo all’ultimo minuto e poi ridere (o più spesso piangere) per i risultati della propria squadra. Anche oggi va così, alla fine vincerà l’Hertha, 5 a 3, ma la festa è tutta per il nuovo miracolo di Köpenick, lo stadio costruito dai tifosi. Tutto serve a rinforzare la fede: le sconfitte rendono più forti, e più ne arrivano, più gli Eisern diventano tosti. Ma anche le vittorie hanno un sapore speciale: il tabellone manuale è un cimelio stretto in una torretta di mattoni rossi tra la gradinata e la curva dei tifosi locali. Oggi che un nuovo tabellone elettronico annuncia anche all’Alte Försterei i tempi del calcio moderno, quel vecchio reperto del calcio che fu è fissato per sempre su un risultato storico: l’8 a 0 rifilato un paio di anni fa nell’Oberliga, una serie minore, ai nemici di sempre, quella Dinamo Berlino un tempo vezzeggiata dalla Stasi e nel cui stadio è stata festeggiata quest’anno la promozione in seconda serie. Quando i giocatori in biancorosso entrano sul terreno di gioco, i tifosi intonano sciarpe al vento l’inno della squadra. È una canzone rock tostissima, scritta e cantata da una fan d’eccezione, anche lei un pezzo di storia della Germania est: Nina Hagen. Fin da quando aveva quattro anni, saltellava il sabato pomeriggio tra le ginocchia del padre e le gradinate dell’Alte Försterei. Perché di ferro si diventa, dell’Union si nasce.