
"Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio". Jorge Luis Borges

Brevedan e Valletti...calciatori vanno in guerra

Olimpiadi 1920. La finale abbandonata dalla Cecoslovacchia

Il Calcio e la Grande Guerra
Durante la Grande Guerra , la maggioranza dei combattenti italiani era composta da contadini, dai giovani dell'Italia rurale che era rimasta del tutto estranea al mondo del calcio. La trincea tenne a balia i primi vagiti della cultura di massa, da cui il calcio trasse un incalcolabile beneficio. Ci si trovò allora per la prima volta nella storia di fronte a una guerra che gettava nella sua macchina di morte intere generazioni. Le mobilitazioni generali, che sottraevano alla vita civile le fasce più giovani della popolazione, avevano determinato la sospensione delle competizioni di football in gran parte dei paesi in guerra: in Germania, in Inghilterra, in Ungheria, in Boemia. Solo nei territori austriaci dell'impero asburgico si continuò a giocare. In Francia e in Russia non si disputava ancora il campionato federale. Paradossalmente, se la guerra aveva sospeso il calcio al di qua dei fronti di battaglia, era la stessa guerra a produrre forme nuove di vitalità sportiva. Le vecchie patrie del football non furono del tutto sommerse dal conflitto. Il calcio sopravvisse tenacemente tra i soldati degli imperi centrali, schierati sui fronti più lontani, mentre sul versante opposto le autorità militari britanniche incoraggiarono il football e il rugby, praticati nelle retrovie e persino sulla stessa linea di battaglia del fronte francese. Il football fu un motivo insistente nella propaganda di guerra britannica. «Giocate il grande gioco, e arruolatevi nel battaglione Football»: si leggeva in un manifesto inglese di arruolamento. Il football continuava intanto il suo processo di crescita nei paesi neutrali e in particolare nell'America Latina. Il Brasile, l'Argentina e l'Uruguay videro moltiplicarsi i loro club e si resero per tecnica e per concezione di gioco del tutto indipendenti dalla matrice britannica. Nel 1916 venne fondata la Confederación Sudamericana de Fútbal e si disputò il primo campionato tra Uruguay, Argentina, Brasile e Cile. Lo scoppio delle ostilità che il 28 luglio 1914 vide schierati gli imperi centrali contro la Francia , la Gran Bretagna e l'impero russo gettò riflessi minacciosi sul mondo dello sport. E non tanto perché la guerra travolgeva i principi dell'internazionalismo sportivo: l'ombra della bandiera olimpica non aveva attenuato le tensioni esplose in seno al CIO alla vigilia del conflitto; ma perché l'inizio delle ostilità colpiva lo sport nel suo stesso tessuto generazionale. Lo sport di guerra riceveva un nuovo impulso dopo l'intervento degli Stati Uniti. Gli americani nel 1917 inviarono i loro corpi di istruttori sportivi al seguito delle truppe e in quell'occasione gli yankees portarono per la prima volta in Europa il baseball, largamente praticato dai soldati USA in Francia. La guerra diede in Italia un colpo definitivo alla roccaforte delle concezioni nazionalistiche della cultura fisica. La ginnastica, fino ad allora legittimata dalle finalità militari, faceva posto al ciclismo e all'automobilismo di guerra, al cimento dell'impresa aeronautica, mentre i giochi sportivi soprattutto dopo la svolta nella condotta psicologica della guerra, seguita alla rotta di Caporetto si affermavano tra le pratiche ricreative di guerra. Dal 1917 non fu infrequente vedere le autorità militari italiane spianare i terreni delle zone di operazione per la costruzione di campi da gioco. Persino tra i soldati italiani prigionieri in Germania la passione sportiva non si spense. Nel campo di Mathausen si erano costituiti nell'estate 1917 numerosi club di football. Ciò non significa che i riflessi della guerra risparmiarono il calcio italiano. Il sacrificio dei caduti decimò gli effettivi delle società sportive: nei soli primi tre mesi di guerra morirono 27 giocatori; durante il conflitto il Milan perse 12 dei suoi uomini tra calciatori e dirigenti; l'Internazionale commemorava alla fine della guerra i suoi 26 morti. Più della metà dei giocatori dell'Udinese e dell'Hellas di Verona non fece ritorno. La Juventus perse in guerra il suo primo presidente: Enrico Canfari. Non vi fu squadra di calcio che non ebbe i suoi caduti, ai quali risalgono molti dei nomi degli stadi italiani. Ciò nonostante, gli anni della guerra non videro la cessazione completa delle attività sportive nella penisola. Interrotto il massimo campionato di calcio, esso fu sostituito dalle coppe regionali, mentre si svolsero regolarmente i tornei minori. A Torino, nel 1915, nacque il primo periodico italiano di club: «Hurrà!», come baldanzoso grido di guerra dei supporters della Juventus. Significativo che il 28 ottobre 1917, quando erano passati appena quattro giorni dalla rotta di Caporetto e il paese attraversava i momenti più tragici del conflitto, si giocasse a Milano tra il Milan e l'Unione Sportiva Milanese una partita valida per la Coppa Mauro e nello stesso giorno si disputassero nella penisola altri dodici incontri dei campionati minori. Si trattava, come si è detto, delle coppe regionali, a cui si aggiungevano i campionati di terza categoria. Da Torino a Messina a Foggia, negli anni della guerra, 55 piccoli sodalizi si unirono ai maggiori nello svolgimento di intense stagioni calcistiche. Una manifestazione come la Coppa Albini , promossa nel 1917 tra le società milanesi non federate, raccolse l'adesione di dieci club, che schierarono in campo duecento giocatori, così come furono numerosi gli incontri che a Torino diedero vita nel novembre 1917 al torneo Don Bosco. Si trattava di squadre di calciatori che non avevano più di 16-17 anni: l'ultima classe chiamata alle armi nel 1917 fu quella dei nati nel 1900. Questo lievitare di giovanissime promesse fu forse il maggiore beneficio che il calcio italiano trasse dalla sventura della guerra. Beninteso, non tutto il calcio di guerra fu storia di ragazzi. Furono numerose le partite tra le formazioni dei diversi corpi militari, né mancarono gli incontri tra squadre dei paesi alleati. Nel marzo 1918 una rappresentativa di giocatori azzurri in servizio presso il XX autoparco di Modena incontrò una squadra di militari belgi guidati dal capitano Louis Van Haege, ex giocatore del Milan, che un referendum del 1911 aveva giudicato il miglior giocatore in Italia. Fu uno dei pochi pionieri internazionali del calcio rivisti sui nostri campi; gli altri erano tornati nelle loro patrie agli inizi delle ostilità e molti di essi perirono in guerra. James R. Spensley, il fondatore del calcio genovese, ferito a La Bessée , era morto il 10 novembre 1915 nell'ospedale di Magonza. L'incontro tra giovani di diverse culture e sensibilità, costretti a condividere un'esperienza di morte, aveva intanto favorito un più rapido diffondersi di abitudini e di linguaggi fino ad allora rimasti esclusivi di alcune aree geografiche o sociali. Si pensi che la maggioranza dei combattenti italiani era composta da contadini, dai giovani dell'Italia rurale che era rimasta del tutto estranea al mondo del calcio. La trincea tenne a balia i primi vagiti della cultura di massa, da cui il calcio trasse un incalcolabile beneficio. Nel 1913 comincia a sfigurarsi il volto già grottesco del nostro continente, comincia a prendere quel ghigno terribile che farà del Novecento un secolo di orrori. Il volto orrendo dell'Europa, e del Mondo, che ancora oggi latra dietro gli angoli, cova nella cenere, digrigna i denti sui confini. Ma il Toro intanto è in Brasile, in tournée dall'altra parte dell'oceano e l'Italia non è ancora in guerra. Affronta l'Internacional il 9 settembre. Sei pere, brasiliani al mittente. Poi è la volta di una specie di Nazionale o Selezione brasiliana, ma data la scissione tra legalitari e ribelli va considerata come una squadra non del tutto rappresentativa. In ogni caso il Toro vince per 5 a 1. Non contenti, quelli chiedono la rivincita. Toro 7, Selezione 1. A San Paolo c'è una colonia portoghese. Hanno una squadra di calcio, si chiama Lusitano. Contro i granata non segnano, in compenso ne prendono solo tre. Ora tocca al Corinthias, nato due anni prima. Stessa cosa, tre reti a zero. Incauti anche loro chiedono la rivincita. Gli va meglio. Perdono per 2 a 1. Il calcio brasihano: in realtà non esiste ancora. Comincerà a esistere, come noi lo conosciamo - e fortemente amiamo - solo nel 1917. Capiterà questo, che negri, meticci, mulatti, caffè, cacao, caramello, terracotta, rame, bronzo, catrame e altre varietà di vita vivente faranno il loro ingresso in campo. La palla, chi la vedrà più? La squadra era laggiù con Pozzo. La squadra è ora che torni in Patria. Ma non può farlo, c'è la Guerra. Resta un po' in Sudamerica, scende fino in Argentina, per giocare. L'assurdo è che stanno aspettando che la Guerra finisca, mentre invece il macello è appena cominciato. Quando riescono a imbarcarsi, sul «Duca degli Abruzzi», e a partire per il viaggio di ritorno, devono fare tutto in fretta. C'è quell'imbarco. Prendere o lasciare. Prendono, partono. Destinazione Genova. Ma i mari sono intanto solcati dalle navi da guerra, i rapporti internazionali sono impazziti. Gli inglesi stanno dando la caccia ai tedeschi. Fermano in mare il «Duca degli Abruzzi», il viaggio di ritorno comincia a complicarsi, come Omero ha stabilito una volta per tutte per la cultura occidentale. Gli inglesi arrestano i riservisti tedeschi. Il viaggio riprende. Ora, mettiamoci nei panni degli atleti granata. Viaggiano nell'oceano, non vedono che mare, mare e orizzonte. Il cielo che si schiarisce, il sole, il cielo che imbrunisce. E poi di nuovo, fino a quando un giorno laggiù tremolano nell'aria le sagome di una costa, la terraferma. E ancora mare e l'acqua dell'oceano si scalda e diventa l'acqua del Mediterraneo, cambiano i colori, i giorni sono passati e all'altro capo della linea immaginaria che parte dalla prua e si tende in avanti, là in fondo, là c'è dovrebbe esserci - il porto di Genova. Gli odori di Genova, il salmastro che satura l'aria carica di basilico così profumato da coprire l'aglio con cui domare l'afrore del pesce che sa di salmastro. La giostra degli odori di Genova quando il vento che cozza sulle colline resta fermo per un breve minuto, a terra, stordito. E l'immagine si avvicina, diventa nitida e grande. Si vedono i moli, le altre imbarcazioni ferme nel porto. Il «Duca degli Abruzzi» comincia quelle manovre che sembrano mosse di un gioco, quegli scodinzolamenti che le navi fanno quando arrivano al porto dopo la traversata, sembrano cani davanti al padrone, ma le riprese sono al rallentatore. Altri dettagli appaiono via via più nitidamente. Movimento nel porto. Da lontano non si vede, da qui invece cominciamo a scorgere addirittura alcune figure umane, persone che si muovono. Il porto è in realtà un organismo brulicante: dal largo non si vede, sembra solo un luogo naturale, una situazione geografica. Guarda invece che vita, guarda come la terraferma non è per niente ferma e si muove sull'acqua. Guarda la schiuma bianca lasciata dalla nave. C'è gente sul molo dove il «Duca degli Abruzzi» va ad attraccare. Una folla di persone. E' tutto un muoversi di colori. La cosa che sempre sorprende chi arriva dal mare è il suono che la terra fa e che si sente a un certo punto, non prima. Capita allora che ci si accorga di essere animali di terra, perché tutto ritorna come prima di imbarcarsi, tutto il mondo, facendo rumore, reclama la nostra presenza. Il mare, che faceva il suo verso respirando regolare, viene cancellato: urla, fischi, nomi gridati, voci. Siamo a casa. Sul molo ci sono i parenti, come a casa. Sventolano fazzoletti colorati. Sembrano fazzoletti, no? Guarda che festa, guarda che allegria. Sono fazzoletti, vero? Si fa così, quando si parte e quando si ritorna. Nel primo caso con gesti languidi e mesti, in silenzio. Nel secondo caso urlando e saltando e dimenandosi. Sono più adeguati al ritorno, i fazzoletti colorati. Per le partenze va meglio il bianco, il grigio, il gesto del polso, non di tutto il corpo. Ma quelli sono fazzoletti? Il «Duca degli Abruzzi» si svuota. Le navi si svuotano in modo diverso dai treni, o degli autobus, o degli aerei. Si svuotano con sollievo: la linea dell'acqua restituisce più fiancata all'aria. La nave si sente leggera. Però. Tutto quel vociare sul molo non è più così allegro. Non erano fazzoletti. Erano le cartoline di richiamo alle armi. Ricorda Pozzo: «Verdi per gli alpini, granata per i bersaglieri, gialli per gli artiglieri». La Guerra incombe. Lo sport, che è il risultato preziosissimo di un processo inelligente, superiore, alto e raffinato di riscrittura simbolica delle passioni d’aggressione, soccombe contro il suo nemico principale, la Guerra. cioè il trionfo della bestia, il desiderio di uccidere, che è il desiderio di morire. Mentre lo sport, lo sport è piacere.
1981: Morire di calcio a San Benedetto del Tronto
Era tutto pronto per la festa promozione della Sambenedettese. Ai rossoblù di Nedo Sonetti sarebbe bastato pareggiare, contro il già spacciato Matera, per approdare in serie B. Domenica 7 giugno 1981 allo stadio “Fratelli Ballarin” c’era il pienone: oltre dodicimila spettatori. Nella formazione marchigiana spiccavano il giovanissimo portiere Walter Zenga, di scuola interista, Cagni e Speggiorin. L’entusiasmo del pubblico di casa aveva portato allo stadio circa sette quintali di piccole strisce di carta da giornale da utilizzare come coreografia per la festa della terza promozione in B nella storia della Sambenedettese. I tifosi si erano dati da fare sin dalla mattina. Allo stadio c’era una nutrita rappresentanza di donne, tifosissime della Samb. Dal Chicco d’Oro partì il torpedone verso il “Ballarin”. Un solo grido lungo il tragitto: Samba, Samba. La Curva Sud , la Fossa dei Leoni, risultò gremita all’inverosimile. Dopo un anno, il ritorno in B è vicinissimo. Lo speaker dello stadio, il mitico Sciarretta, era già in posizione. Clima ideale per un giorno di festa sportiva. Poco prima del calcio d’inizio, si sviluppò un incendio proprio in curva sud. La notevole quantità di carta agevolò le fiamme e 3.500 persone rimasero intrappolate. Le chiavi dei cancelli d’emergenza non vennero subito trovate. Scattò un fuggi fuggi generale, la calca fu tremenda e parecchie persone finirono proprio dentro l’incendio, inghiottiti dalle fiamme. Un quarto d’ora di panico, poi le fiamme furono domate mentre i feriti venivano trasportati in ospedale con ambulanze, taxi e auto private. Lo speaker dello stadio cominciò una tragica sequela di annunci: uomini, donne e giovani erano attesi all’uscita dalla tribuna. Gli occupanti del settore Distinti capirono subito la gravità dell’accaduto. I giocatori erano entrati in campo in anticipo per il lancio dei fiori al pubblico e per i festeggiamenti preliminari. L’arbitro dell’incontro, il promettente bolognese Paolo Tubertini, si stava apprestando a lanciare la monetina con i due capitani per la scelta del campo quando, improvvisamente, si alzò un evidente falò dalla curva sud. “Secondo me erano stati venduti molti biglietti, – aggiunse l’arbitro dell’incontro – il pubblico era stipatissimo, uno spettatore sopra l’altro”. E poi, quintali di carta per trarne coriandoli e supporti coreografici ed un caldo notevole. Fu, forse, lo scoppio di un bengala a scatenare l’apocalisse, o un banale fiammifero. L’incendio divampò in un batter d’occhio. Qualcuno pensò ad un atto terroristico, una bomba probabilmente. Arbitro e giocatori si avvicinarono alla curva incendiata e la scena fu agghiacciante: due donne erano diventate torce umane, alcuni cercavano di sfuggire alle fiamme buttandosi oltre il filo spinato, verso il rettangolo di gioco. Alcuni furono salvati dalla rete di recinzione che attutì l’impatto con il terreno al momento del salto. Un bambino di dieci anni fu salvato dal gesto eroico di un adulto che, prima di allontanarsi dal rogo, riuscì a liberare il bambino, ormai destinato a morte sicura.“Chiesi ai dirigenti locali dove fosse la chiave del cancelletto che separa la gradinata dal campo, - aggiunse l’arbitro Tubertini – ma questa chiave non saltava fuori. L’acqua è arrivata con un serio ritardo, il bocchettone presso la curva non funzionava e si è dovuto usare quello del centro del campo”. Solo la fortuna evitò un bilancio peggiore in termini di morti e feriti. Il Messaggero, nelle pagine dell’edizione marchigiana, parlò di soccorsi tempestivi. Con sedici minuti di ritardo, Tubertini fischiò il calcio d’inizio. “Le due squadre erano d’accordo a giocare, anche i dirigenti”, affermò ai giornali il direttore di gara. La scelta di disputare l’incontro, come avverrà quattro anni dopo in una ancor più tragica giornata, quella dell’Heysel ’85, fu motivata da ragioni di ordine pubblico. Non far disputare la partita poteva creare ulteriori tensioni. In campo regnava un’atmosfera mesta, i giocatori sembravano più attenti a captare novità sulle condizioni dei feriti che a fare la partita. Con lo 0-0 finale la Sambenedettese ottenne la promozione in B ma nessuno aveva voglia di festeggiare. Un pomeriggio di festa si trasformò in tragedia ed il dettaglio calcistico non contava più. Tredici persone rimasero gravemente ustionate. Per loro fu necessario il trasferimento nei centri grandi ustionati sparsi per l’Italia: alcuni a Roma, altri a Cesena, Padova e Brindisi. Due ragazze di San Benedetto del Tronto persero la vita: Maria Teresa Napoleoni, 23 anni, deceduta all’alba del 13 giugno ’81, e Carla Bisirri, 21 anni, la cui agonia si protrasse per altri quattro giorni. Entrambe morirono nel “Centro Grandi Ustioni” dell'Ospedale San Eugenio di Roma dove erano state ricoverate con ustioni del I, II e III grado sul 70% del corpo. La Napoleoni lavorava come segretaria in una ditta di calzature, la Pisirri aveva appena iniziato l’attività di parrucchiera. Il bilancio finale del rogo del Ballarin fu di 2 morti, 64 ustionati (undici dei quali gravi) ed un centinaio di feriti. La più grande tragedia accaduta in uno stadio italiano di calcio. Una tragedia che portò, poco meno di otto anni dopo, alla condanna, tra gli altri, del presidente della Sambenedettese e di un commissario di polizia. Il Comune, proprietario dello stadio, fu condannato, dai giudici del Tribunale di Ascoli Piceno, a risarcire i danni alle famiglie delle vittime. Un monito, per il futuro, ad avere grande attenzione verso la sicurezza degli spettatori negli stadi. Il sindaco di San Benedetto tuonò contro la sentenza poiché, all’epoca dei fatti, il Comune era proprietario dello stadio ma con la gestione affidata alla società calcistica, ad eccezione della manutenzione del manto erboso. Dei sedici imputati, quattordici vennero giudicati colpevoli di incendio ed omicidio colposo I vertici della Lega Calcio, nel commentare la sentenza dei giudici, parlarono di “forzatura”. Il vicepresidente juventino Chiusano chiarì che la condanna al presidente della Samb non poteva scaturire da un’eventuale responsabilità oggettiva che, pur riconosciuta dalla giustizia sportiva, era anticostituzionale in ambito penale. Di quel 7 giugno ’81 c’è chi conserva, ancora oggi, la bandiera, il drappo portato allo stadio quel giorno per festeggiare la promozione della sua squadra del cuore e subito avvolto per sfuggire alle fiamme e ad una fine atroce in un pomeriggio che doveva essere di gioia e spensieratezza e che si trasformò in un giorno di morte.
Cienciano del Cusco...un miracolo in Perù
Quando, al minuto 32 della ripresa, Carlos Lugo prende la palla e la posiziona nel punto esatto in cui il pessimo arbitro messicano ha da poco fischiato un calcio di punizione a favore di una sconosciuta squadra peruviana, il Cienciano del Cusco, lo stadio Monumental di Arequipa è una bolgia infernale. I 250 tifosi del River Plate – team tra i più gloriosi e vincenti di Buenos Aires - incrociano le dita e maledicono l’infortunio di Marcelo Salas, l’ex laziale e juventino che si è “rotto” dopo pochi minuti. I 250 hinchas argentini osservano con terrore Carlos Lugo prendere la sua rincorsa potente. Quelli del River hanno l’occhio terrorizzato, tipico di chi sa di sta vivendo un momento storico. Negativo, certo, ma storico, perché la finale della Copa Sudamericana 2003 (l'equivalente sudamericano della Europa League europea, anche se vi partecipano pure i campioni di ogni paese) potrebbe essere il primo trofeo all times vinto da una squadra del Perù, nazione calcisticamente dietro anni luce rispetto a Brasile, Argentina, Uruguay, Cile, eccetera. Carlos Lugo dello Cienciano del Cusco impatta la sfera, i 45mila paganti del Monumental di Arequipa sono sull’orlo di una crisi di nervi, hanno smesso di respirare, pronti a esplodere la loro felicità di lì a sette decimi di secondo, quando la palla gonfia la rete difesa dall’arquero, il portiere del River Franco Costanzo, le cui origini italiche sono inconfutabili, così come l’inutilità del suo tuffo. Spettacolare ma fine a se stesso. Ciò che segue è difficilmente comprensibile per chi ha occhi e mentalità europea: l’intero Perù, si trasforma in un immenso salone da ballo e, per tutta la notte, la gente di Arequipa, della regione di Cuzco, di Lima e di ogni paese e città scende in strada, a brindare con enormi bottiglie di birra o, come dicono qui, di cerveza. Un episodio tra i tantissimi che riportavano le prime pagine dei giornali locali, ci aiuta a capire la follia collettiva di una nazione: a Iquitos una coppia di fidanzati che doveva sposarsi proprio il giorno del trionfo dello Cienciano, ha dovuto attendere per sei ore lo scambio delle fedi. Il motivo? Tutti stavano vedendo la partita, incluso il prete della chiesa evangelica che doveva celebrare il matrimonio! Il club è stato fondato oltre cent'anni fa, da un inglese, William Newell, a cui venne affidato il compito di creare una squadra del «Collegio nazionale di scienza» (ciencia, in spagnolo, e da qui Cienciano), il club non aveva mai vinto niente. Massimo momento di gloria, gli ottavi nella Libertadores 2001. Dal nulla, al trionfo, raggiunto con un gruppo di giocatori vecchi, messi da parte da altre società, riciclati. Si va da un portiere trentasettenne, l'argentino Ibañez, che stava già pensando a ritirarsi, a un goleador, Lugo, retrocesso con l'ultimo club peruviano in cui era finito, nella peripezia che dal nativo Paraguay lo aveva portato in mezzo Sudamerica. E poi una frotta di «ex» dell'Universitario, scartati per scarsi mezzi tecnici o raggiunti limiti di età. A questo gruppo si aggiungeva il locale Cesar Cahuantico, fino all'anno scorso poco più che un dilettante, ora titolare dei campioni. Un'armata tutt' altro che invincibile, e su cui Ternero ha dovuto lavorare parecchio: «All'inizio se tre giocatori parlavano fra loro era il massimo dello spirito di gruppo». L'ex c.t. peruviano ha così iniziato a lavorare sul lato psicologico, con citazioni bibliche e altre da film americani: «Sì, se puede» è diventato il motto della squadra. Che è diventata gruppo. Lì sono iniziate le vittorie, lì è iniziata la cavalcata, dipinta in patria come una «riconquista inca». Dalla dimenticata Cuzco, sulla Cordigliera andina, località storica e turistica seconda solo al vicino Machu Picchu, gli eredi della popolazione precolombiana hanno conquistato nell'ordine Lima (dove gli spagnoli spostarono la capitale), poi Cile, Colombia (Nacional Medellin), Brasile (Santos) e Argentina. Per l'ultima tappa si sono tolti lo sfizio di fare fuori il River Plate (3-3 in trasferta e 1-0 in casa), di farlo finendo in 9 nella finale di ritorno, e di rompere le uova nel paniere della potente emittente televisiva Fox, che sperava per la Recopa in una sfida Boca-River. Per realizzare il derby, dicono in Perù, era stato mandato appositamente un arbitro (quello delle due espulsioni) ed era stata spostata la sede della finale di ritorno ad Arequipa, ufficialmente per inadeguatezza dello stadio, forse per togliere un po' del vantaggio dato dall'altura. Sull'altro vantaggio che si sono presi i peruviani, non c'è stato nulla da fare. Presidente ed esperti si sono detti d'accordo nell'attribuire la grande vittoria a due fattori: uno stipendio che arrivava puntuale (cosa non scontata in un paese in cui il campionato è stato sospeso e soppresso per uno sciopero dei giocatori non pagati) e le proprietà rigeneranti della maca. Trattasi di una pianta che cresce sulle Ande, a quasi 4mila metri d'altezza, e le cui radici hanno proprietà già apprezzate dagli Inca, gli antichi abitanti del Perù. Dimenticata dal mondo, e preservata solo nella zona di Cuzco, la pianta, oltre a essere definita il «Viagra peruviano», dà provati effetti rigeneranti anche per i giocatori: una sorte di integratore naturale. Fa parte del segreto del Cienciano, resterà nella leggenda.
Quando Massimo Barbuti mandò il Milan all'Inferno
Beccalossi Evaristo: Scusate se insisto!
Hateley ed il suo derby della Madonnina
Genoa-Samp: Quando Pruzzo si aggrappò al cielo
C'era una volta uno stadio senza tetto...Marassi…e un bomber che si chiamava Roberto Pruzzo, ma per i tifosi del Genoa era semplicemente "O Rey" (sì, proprio come il grande Pelè). Per la precisione "O Rey di Crocefieschi" perché era nato nel paesino abbarbicato sull'Appennino ligure. Pino Williner, baistrocchino e grande tifoso genoano, celebrò le gesta di Pruzzo addirittura in una commedia musicale che venne messa in scena all'auditorium della Fiera del mare. Orecchiabile il ritornello: «Che cosa non farei, che cosa non darei per abbracciare O Rey... ».E quel derby del 13 marzo 1977 passò alla storia proprio come il derby di Pruzzo. Fu anche la prima cartolina dei tifosi del Genoa, 13 anni e 6 mesi prima di quella di Branco. Perché la foto di Pruzzo che salta sin lassù, inarrivabile per gli avversari, divenne un'immagine cult che tuttora provoca un'accelerazione dei battiti cardiaci dei sostenitori rossoblù. Quella vittoria per i tifosi genoani ebbe un sapore particolare, non decretò infatti solo la supremazia cittadina ma di fatto propiziò anche la retrocessione della Sampdoria in serie B». Per una volta, infatti, le parti si erano invertite: non era il Genoa alla disperata di punti per cercare di evitare la serie B ma la Sampdoria. E per far retrocedere i cugini, il Genoa ci mise davvero tanta buonissima volontà. Non solo vinse il derby, ma poi perse anche in casa con Bologna e Foggia, avversarie dirette dei blucerchiati nella lotta per la salvezza. Insomma, si era dovuto aspettare 26 anni, ma alla fine il "derby di Sabbatella", quello del 22 aprile 1951, deciso a 3' dalla fine da un gol dell'oriundo della Samp, era stato vendicato. E Vladimiro Caminiti, il giornalista poeta, su Tuttosport scrisse: «Il Genoa non è soltanto Pruzzo e Damiani, è anche una grande folla che gli soffia nel cuore». Eppure, da parte rossoblù, il preludio non sembrava davvero quello di una giornata trionfale. Altro che Pruzzo, ad andare in gol, dopo appena 3', era stato il suo avversario diretto. Luciano Zecchini, lo stopper della Samp e dunque colui che si sarebbe unicamente dovuto preoccupare di neutralizzare il bomber del Genoa, recupera una palla nella propria metà e poi trova un corridoio che gli permette di scendere indisturbato verso la porta di Girardi, chiede e ottiene il triangolo da Savoldi II e da almeno 25 metri , lui che è solo mancino, lascia partire un destro imprendibile. Ma quali tornelli e biglietti nominali, nel catino di Marassi vengono stipati 50 mila spettatori (44.321 i paganti per 158.566.600 di vecchie lire d'incasso), l'antico Ferraris, che era stato inaugurato proprio il giorno del derby di Sabbatella, presenta davvero un colpo d'occhio straordinario. In campo, però, sembra esserci una squadra sola. La Sampdoria ha in mano il pallino e continua a macinare gioco. Pruzzo? L'ombra di se stesso. Ma Simoni cambia la marcatura su Savoldi II e azzecca la mossa che cambia il volto della partita. Arcoleo gli lascia troppo spazio, il numero 10 blucerchiato è la fonte di tutto il gioco della Sampdoria, così dalla panchina rossoblù, viene ordinato ad Ogliari di stargli appiccato e non concedergli un metro ("Savoldi è partito alla Sivori ma poi Ogliari gli ha nascosto la palla..." riferisce Caminiti). Il Genoa pareggia all'ultimo minuto del primo tempo: papera di Di Vincenzo, e tocco facile di Damiani. Sono tre i genovesi in campo (il ventenne De Giorgis resta in panchina): Arnuzzo ed appunto Di Vincenzo e Pruzzo. Il portiere ed il re dei bomber si trovano faccia a faccia, come in un duello all'Ok Corral, al 3' della ripresa quando Gussoni di Tradate assegna un rigore al Genoa per un fallo di Arnuzzo su Damiani. Pruzzo, senza finta, calcia alla sinistra del portiere, Di Vincenzo, che sta chiudendo nella Sampdoria una carriera che aveva iniziato proprio nel Genoa, intuisce e para. «Una brutta botta - disse il bomber di Crocefieschi - Per rifarsi aveva solo un modo: fare gol su azione. Così dall'inferno si ritrovò in paradiso, ma fu dura perché quando si sbaglia un rigore nel derby il morale te lo ritrovi davvero sotto i tacchetti delle scarpe. Pruzzo non aveva mai sentito troppo le partite, ma per il derby era diverso. certamente il fatto che fosse di Genova gli metteva addosso una tensione ed una pressione enormi. L'occasione per riscattarsi da quel rigore sbagliato, a Pruzzo capita al minuto 33 del secondo tempo. Il cross dalla sinistra è di Castronaro. La difesa della Sampdoria non è certamente piazzata nel modo migliore. Lippi, futuro ct campione del mondo, interpreta in maniera singolare il ruolo del libero, standosene quasi fuori dall'area di rigore, mentre la palla spiove al limite di quella piccola. Zecchini si fa bruciare in elevazione e Di Vincenzo galleggia tra palla e porta in quella terra di nessuno che per un portiere rappresenta la zona peggiore dove posizionarsi. Per chi sa di calcio….sa che un cross dalla tre quarti non può diventare un assis! In quell’azione c’era stato un madornale sbaglio. Di Vincenzo voleva uscire, poi ci ripensò e così è rimasto a metà strada. Forse avevano sottovalutato Pruzzo, ma a quei tempi….lui…saltava davvero in cielo...». Andava davvero in cielo il bomber che poi Fossati cedette a peso d'oro alla Roma anche se era stato promesso al Milan e, prima ancora alla Juventus. Era fatto così, u sciu Rensu: gli affari prima di tutto. Ma di calcio capiva e aveva allestito un'ottima squadra. Il Genoa di quella stagione era davvero una gran bella squadra che Simoni faceva giocare a trazione anteriore. Ma in quel calcio, che ancora non prevedeva i tre punti a partita, era forse il caso di essere un po' meno spettacolari e più coperti dietro». La leggenda narra che a raccomandare Pruzzo a Fossati fu il benzinaio davanti ai Sette Nasi dove il presidente genoano si fermava a fare il pieno…ma è soltanto una leggenda metropolitana. La verità è che fu un amico ad indirizzare “O Rey” nel settore giovanile del Genoa: aveva 16 anni, due anni dopo esordiva in serie A». Ma la sua è comunque è una storia da raccontare, una storia d' altri tempi, non ho avuto maestri, ha sempre e solo giocato nel campetto della chiesa di Crocefieschi. Ha giocato nel primo campo vero, se così si può chiamare, all’età 15 ann,i a Vobbia, nel torneo dei bar». Bar nei quali ancora oggi troneggia il poster di quel famoso e ormai lontano gol dove “O Rey”…fermò il tempo e la storia, aggrappandosi al cielo come un falco!
L'Italia Mundial di Spagna 82

Fin qui, rilievi più o meno tecnici. Ma c'è dell'altro. Innanzitutto la diatriba sul premio di qualificazione: si è parlato di 60-70 milioni a testa e su tali voci si sono levate proteste nell'opinione pubblica, un'interrogazione parlamentare e un esposto alla Procura della Repubblica di Roma. Poi è intervenuto Sordillo, precisando che ogni azzurro avrebbe ricevuto una ventina di milioni lordi. E Carraro, presidente del Coni, ha assicurato che per il pagamento si sarebbero utilizzate le percentuali sugli incassi. A questa tensione di fondo si è aggiunta poi una ventata di basso giornalismo, con volgari insinuazioni su Rossi e Cabrini compagni di camera. Insomma, l'aria di Vigo si è rivelata umida in tutti i sensi. Così, al momento di lasciare la Galizia per Barcellona, la squadra, provata anche psicologicamente dalla passata paura dell'eliminazione, ha annunciato il silenzio stampa. Nessun giocatore, a termine indefinito, avrebbe più rilasciato dichiarazioni, salvo capitan Zoff. Al sole di Barcellona, quindi, gli azzurri si leccano le ferite e meditano una vendetta difficilissima, considerati gli abbinamenti per la seconda fase. Con il secondo posto del turno eliminatorio, l'Italia s'è guadagnata infatti due terribili compagni d'avventura: Argentina e Brasile. La prima arrivata di questo terzetto va in semifinale, le altre a casa. Bearzot ha un unico credo: difendere i suoi, fino allo stremo. Rivelerà poi di aver visto nella fase eliminatoria, in particolare contro il Perù, la squadra letteralmente terrorizzata dalla paura di perdere; ma intanto distribuisce ai giocatori elogi che, a fronte della realtà, paiono senz'altro esagerati. I giocatori, di conseguenza, fanno blocco in favore del loro tecnico, anche se, per la verità, qualche crepa affiora: il giovane Massaro, per esempio, è segnalato come uno dei più in forma, ma si dice sia stato "cancellato" da Bearzot dopo l'amichevole di Braga, quando il giocatore ha espresso critiche ai compagni. E Altobelli, che in allenamento segna a ripetizione, rimugina amaro sul suo ruolo di panchinaro. L'emergente Dossena, invece, che molti vedrebbero volentieri in squadra, si adatta di buon grado a fare il "turista". II silenzio stampa non piace al presidente Sordillo, che prima del debutto nel secondo turno, contro l'Argentina, tenta di convincere la squadra a desistere. Zoff risponde picche. Di fronte all'Italia di Vigo, l'Argentina sembra uno scoglio titanico. Rispetto a quattro anni prima, i campioni del mondo hanno aggiunto al loro organico un po' invecchiato il miglior giocatore in circolazione, quel Maradona che giocherà davanti ai suoi prossimi tifosi, visto che ha da poco firmato un contratto principesco con il Barcellona. Maradona con la palla al piede fa prodigi che non si vedevano dai tempi di Pelè. Degli azzurri lo conosce molto bene Tardelli, che lo ha affrontato due volte: la prima con la Nazionale nel '79, a Roma; la seconda in un'Argentina-Resto del Mondo. In quest'ultima occasione Tardelli fu espulso per rudezze ai danni del giovanissimo e imprendibile avversario.Maradona, letteralmente cancellato da Gentile nella vittoriosa partita degli azzurri per 2-1 Bearzot fa strenua pretattica, non vuole dare alcun vantaggio al carismatico Menotti, tecnico avversario, con il quale i rapporti non sono al momento idilliaci. L'argentino, infatti, ha imbastito critiche abbastanza dure nei confronti della squadra azzurra, definita "squilibrata" e nettamente inferiore a quella presentata in Argentina. Bearzot non digerisce e rimanda al mittente: «Anche la sua squadra, durante le amichevoli premondiali, poteva essere definita squilibrata. E poi cosa ne pensa della prestazione dei suoi contro il Belgio?». Schermaglie a parte, il ct azzurro non ha intenzione di toccare nulla rispetto agli uomini impiegati contro il Camerun: Zoff tra i pali; Collovati, Gentile e il libero Scirea a formare il pacchetto difensivo, con Cabrini fluidificante a sinistra; a centrocampo, Oriali, Tardelli e Antognoni, con il supporto di Conti; Rossi punta centrale, Graziani in appoggio. Rimane un unico dubbio: chi marcherà Maradona? Bearzot è indeciso fra Tardelli e Gentile. Ma Maradona gioca in chiave esclusivamente offensiva, e Tardelli su di lui dovrebbe fare il difensore puro, privando così la squadra di una spinta importante. Così, negli spogliatoi, a pochi minuti dal fischio d'inizio, Bearzot prende da parte Gentile e gli fa un discorsetto di questo tipo: «Maradona lo prendi tu. E' un grandissimo, il tuo compito è fondamentale. Ma io ho fiducia in te. Va' in campo e annullalo». Per uno come "Gheddafi" basta e avanza: l'ultimo momento in cui Mardona può muoversi senza un'ombra azzurra appiccicata addosso è quello del riscaldamento. Il piccolo Sarrià, secondo stadio di Barcellona dopo il Nou Camp, è una fornace ribollente: le prime fasi si risolvono in una sequela di scontri durissimi. Gli azzurri mostrano i tacchetti, ma dall'altra parte, con gente come Passarella e Gallego, non ricevono sorrisi. Maradona prova ad esibirsi, si vede che il suo bagaglio è superiore. Ma l'ombra azzurra che gli è alle costole sembra avere cento mani e cento piedi: il "pibe de oro" è trattenuto, bloccato, "massaggiato". E quando, verso la metà del tempo, riesce ad andar via e puntare dritto alla porta, viene steso senza pietà dal classico e generalmente correttissimo Scirea. Si va al riposo sullo 0 a 0. Neanche male, almeno non si sono riviste le mollezze e i timori di Vigo. E nella seconda parte, dopo una dozzina di minuti, parte dai piedi di Conti un contropiede che taglia in due i biancocelesti. L'ultimo tocco è di Antognoni per la veloce sovrapposizione di Tardelli che, spostato a sinistra, piazza un rasoterra nell'angolo lontano. E' una rasoiata al petto dell'Argentina. Un sogno? Neanche per idea, perché da quel momento l'Italia tiene botta di fronte agli attacchi avversari senza concedere più nulla. Lo stesso Gentile non ricorre nemmeno più al fallo per fermare Maradona. Gli azzurri formano ora un meccanismo perfetto, in cui lo stesso Rossi dà cenni di ripresa. E proprio a Rossi, poco dopo, capita l'opportunità di filare da solo verso il portiere Fillol. Al momento della battuta, in preda alla fatica e a tutte le sue tensioni irrisolte, Paolo si rattrappisce scomposto e consente a Fillol la respinta. Il mondo potrebbe crollargli addosso, se quel pallone non fosse subito artigliato e giocato magicamente da Conti, che dopo aver nascosto la sfera allo stesso Fillol, la serve indietro a Cabrini. Sinistro secco e 2 a 0. Ora si va in discesa. Esce esausto Rossi ed entra Altobelli, appena in tempo per prendersi una perfida gomitata in faccia da Passarella. Lo stesso Passarella calcia una punizione mentre Zoff sta ancora sistemando la barriera e porta l'Argentina sul 2 a 1, fra le proteste italiane. In chiusura, folleggia ancora Bruno Conti, capace di uscire palla al piede da un nugolo di gambe che lo falciano come motoseghe. Cosa è successo? Non è facile spiegarlo, sta di fatto che i giocatori hanno trasformato la sindrome da assedio da cui è nato il silenzio stampa in una straordinaria forza morale. Ecco cosa meditavano i leoni in gabbia, nella tesa vigilia. Bearzot si presenta in sala stampa senza sorridere. Anche per lui è una rivincita ed evidentemente le ultime polemiche il ct le ha ancora sullo stomaco. Pur nel successo, tende ancora a giustificare le precedenti magre: «Nelle prime partite - dice - c'è mancato il colpo del ko.». Fra gli azzurri, molti cominciano a pensare che sarà difficile fermare la "nuova" Italia. Eppure, è alle viste l'incontro con i "mostri" brasiliani, predestinati al trionfo. Intanto, c'è modo di rilassarsi. Il giorno dopo la battaglia, Graziani, Rossi e Collovati scendono presto in sala video per rivedersi l'incontro. Gli altri dormono fino a tardi e nel pomeriggio sciamano per le vie di Barcellona in tutta libertà. Chi vuole, può tornare anche alle soglie della mezzanotte. La mattina del 2 luglio, a Casa Italia piomba il presidente del Consiglio Spadolini, diretto a Madrid. Non sono momenti facili per lui e per il suo governo. Ma soprattutto non sono momenti facili per l'Italia, che si scopre infestata dalla P2 e nelle more oscure dell'affare Calvi, trovato qualche giorno prima impiccato a Londra. Di fronte a Spadolini, Sordillo si lancia in un discorso aulico, con riferimenti addirittura alla fatale avventura di Leonida alle Termopili. Nel pomeriggio, gli azzurri si recano di nuovo al Sarrià, ma questa volta in veste di spettatori interessati: c'è Argentina-Brasile, un grande classico del calcio mondiale. Il Brasile signoreggia contro un avversario ormai provato. Uno, due, tre gol, a cui gli argentini oppongono solo una segnatura in extremis. Maradona si fa prendere dall'ira, piazza i bulloni sul fianco di Batista e conclude il suo mondiale con un cartellino rosso. A scusante della sua magra pone i colpi presi contro l'Italia. «Non è ancora maturo», sentenzia il grande Pelè, che ha invece eletto Bruno Conti a suo preferito. Italia-Brasile è quindi lo scontro decisivo. A Casa Italia i rapporti fra stampa e squadra non sono certo tornati allegri: fra Gentile e Lino Cascioli del Messaggero si viene quasi alle mani. Ai sudamericani basta il pareggio, per la migliore differenza reti. Bruttissimo affare: bisognerà scoprirsi. Nelle certezze del Brasile affiora comunque qualche preoccupazione. Il selezionatore Santana teme il contropiede azzurro e si dice ammirato dalle giocate di Conti e Antognoni. Le due squadre sono al completo, l'unico dubbio è la presenza di Zico, maestro fra i maestri, vittima di un'entrata assassina di Passarella. L'opinione comune è che fra le due formazioni ci sia un forte divario. Eppure, nel cammino trionfale del Brasile è possibile intravedere piccole falle, soprattutto nella scarsa affidabilità del portiere Valdir Peres e nell'assenza di un uomo d'area più prolifico di Serginho. Inoltre, gli italiani hanno riposato cinque giorni, i loro avversari due. Zico passa la vigilia con la borsa del ghiaccio sul polpaccio sinistro, ma alla fine decide di giocare. Bearzot ha previsto di affidarlo a Oriali, dirottando Gentile sull'ala Eder, mancino temibilissimo. Invece, proprio dieci minuti prima dell'inizio, Bearzot chiama Oriali e Gentile e rimescola le carte: «Ti ho visto molto bene su Maradona - dice a Gentile - perciò prendi anche Zico. Oriali va su Eder». Sul campo, gli azzurri fanno la parte delle vittime predestinate solo per 5 minuti. Poi, Conti opera un lungo dribbling sull'out destro, cambia gioco per Cabrini, che alza la testa ed effettua il traversone arcuato. E' un attimo: dietro ai difensori si materializza Rossi, che di testa va a cogliere l'angolo lontano. Incredibile: gol al Brasile e gol di Rossi! Il Brasile è un gigante colpito da un pallino di gomma: qualche secondo dopo ha già ripreso a infiorettare gioco con somma noncuranza dell'avversario. E fortuna che Serginho ciabatta malamente a tu per tu con Zoff. Poco dopo, però, Zico ruba il tempo a Gentile e chiama all'incursione Socrates: il "Dottore" accenna il cross e va invece beffardamente a trafiggere Zoff sul primo palo. L'illusione è durata poco. I brasiliani fanno girare palla con sicurezza, orchestrati dal centrocampo delle meraviglie: Falcao, Cerezo, Socrates, con gli apporti di Junior e Eder. Zico è una volpe: le sue giocate di prima mandano spesso a vuoto Gentile, che in una occasione gli si aggrappa alla maglia e gliela strappa. Ma la troppa sicurezza a volte tradisce: su un passaggio orizzontale di Leandro, Cerezo e Junior la prendono un po' alla leggera; fra i due sbuca Rossi, davanti al quale si spalanca il corridoio verso la porta avversaria. Breve corsa verso Valdir Peres, botta di destro e gol. Eccolo di nuovo il Pablito conosciuto in Argentina, il predatore che riesce a farti rimpiangere per la vita un attimo di disattenzione. Intanto, Collovati è uscito per infortunio e Bearzot ha mandato in campo il non ancora diciannovenne Bergomi, che i compagni, per l'aria seria e i baffoni, chiamano "zio". Tutto sembra filare liscio, nel secondo tempo, fino a quando il romanista Falcao trova una buco centrale al limite dell'aria e batte Zoff. La sua gioia sfrenata è la nostra disperazione, anche perché mancano solo 17 minuti. Il Brasile a questo punto vuole il trionfo, continua ad attaccare ache se il pareggio gli va benone. L'Italia guadagna un corner, la difesa respinge dalle parti di Tardelli, che tenta la battuta. Non sarebbe niente di straordinario, se in mezzo alla mischia non sbucasse un piede di Pablito a mettere dentro per la terza volta. Per Rossi un tris memorabile, ma per l'Italia non è finita. Gli attacchi brasiliani adesso sono disperati e affannosi. Zoff ha urlato come un ossesso durante tutta la partita e adesso sembra non aver più neanche un filo di fiato. Ma su un colpo di testa di Cerezo, si lancia sulla sinistra e blocca la palla proprio sulla linea, togliendo dieci anni di vita a milioni di italiani. Va via l'Italia in contropiede, Antognoni tira e fa gol, ma l'arbitro annulla per un fuorigioco che non esiste. E bisogna soffrire qualche altro minuto, prima del triplice fischio. I tifosi brasiliani, che nei giorni precedenti avevano riempito di musica e balli le ramblas, rimangono impietriti. Piangono, come piange Falcao in campo. La festa italiana comincia invece all'unisono a Barcellona come nelle nostre piazze. Ricompaiono bandiere tricolori tirate fuori da chissà quale anfratto. Rossi è un eroe. Perfino quelli che lo trattavano da bidone vanno a manifestargli la loro ammirazione. In novanta minuti ha rimesso la sua carriera su binari lasciati due anni prima. All'hotel Castillo adesso regna l'euforia. Gli azzurri ormai sono straconvinti che nessun ostacolo si potrà frapporre alla conquista del mondiale.In semifinale ci tocca la Polonia. Grave rischio: dopo le imprese con Argentina e Brasile, i polacchi, già incontrati nella prima partita, possono essere considerati solo una formalità da sbrigare in tutta fretta. Tanto più che il loro uomo migliore, il prossimo juventino Boniek, è squalificato. Qualche problema, in verità, ce l'ha anche Bearzot: Gentile non ci sarà, anche lui per squalifica; Vierchowod, suo eventuale sostituto, è infortunato; Tardelli e Oriali sono malconci, ma in grado di farcela. Al posto di Gentile gioca Bergomi. Barcellona è un forno a 40 gradi. Titola la "Vanguardia": «La temperatura più alta del secolo». Ribadisce il "Noticiero": «Un cinturone di fuoco attorno a Barcellona». Sale anche la temperatura degli italiani, il cui numero nel capoluogo catalano è aumentato notevolmente. Contro la Polonia si gioca nello sterminato Nou Camp. Stavolta è l'Italia a recitare la parte della favorita. I polacchi si difendono non senza rudezze, ma per il gol del vantaggio bisogna aspettare solo una ventina di minuti. Calcio di punizione dalla destra di Antognoni e palla in rete. Ci vorranno due o tre replay per accorgersi che su quella traiettoria è spuntato il piede rapinoso di Rossi per una deviazione fatale. Poco dopo, lo stesso Antognoni, ancora toccato dal gol annullatogli contro il Brasile, va a tentare un'improbabile conclusione, benché in ritardo sull'avversario. Risultato: squarcio sul piede e sette punti di sutura. Al suo posto, Marini. Sorte analoga tocca nel secondo tempo a Graziani, sostituito da Altobelli per un infortunio alla spalla. Ma l'Italia va spedita verso la finale, così come va spedito Conti sulla fascia sinistra, prima di crossare un morbido e comodo pallone, sul quale Rossi si inginocchia firmando il 2 a 0 definitivo. Cinque gol in due partite: nei giorni bui di Vigo, Rossi aveva cercato di profetizzare: «Giudicatemi alla fine. Credo che se segnassi un gol mi sbloccherei». Ma quanti gli avevano prestato fede?Uscendo dal campo, Zoff si avvicina a Bearzot, che si intrattiene con una televisione, e lo bacia. In quel gesto fra friulani schivi c'è la compattezza e la coesione di tutto l'organico. Al di là delle scelte tecniche, sembra questo il tratto distintivo di questa nazionale. Una finale di straordinario valore simbolico, visto che metterà di fronte due grandi della storia del calcio: Italia e Germania Ovest. Entrambe le nazionali aspirano a raggiungere il Brasile con i suoi tre titoli mondiali, I tedeschi hanno agganciato la finale ai rigori contro la Francia , dopo essere stati in svantaggio di due gol ai tempi supplementari. Ce n'è abbastanza per alimentare la loro fama di irriducibili. Ma l'Italia ormai ci crede se ci fosse uno strumento per misurare la carica agonistica, con gli azzurri scoppierebbe. Ecco Madrid, finalmente: la comitiva italiana alloggia all'Hotel Almeda, già prenotato dai brasiliani, Ma guarda un po' come va a ripetersi la storia: nel '38, prima della semifinale Italia-Brasile, Pozzo andò dai brasiliani che in vista della finale avevano prenotato l'unico aereo per Parigi, a chiedere di cedere i posti nel caso di vittoria italiana, «Spiacenti - risposero - ma non avete alcuna possibilità di batterci». L'Italia vinse 2 a 1 e andò a Parigi in treno. Il baluardo del silenzio stampa non crolla neanche a un giorno dalla finale: l'unica deroga viene concessa a Bergomi, che così può spiegare le sue sensazioni di diciottenne nella mischia del mondiale. Da Roma, arriva anche Pertini. Il presidente si era sempre rifiutato di raggiungere la Spagna , temendo, in caso di eventi negativi, di fare la parte del menagramo. Ha ceduto solo all'invito espresso del re Juan Carlos. Non ha questi problemi invece la folla variopinta degli italiani riversatisi da Barcellona nella capitale. Bearzot e il suo collega Derwall hanno un grande problema ciascuno: Antognoni da una parte, Rummenigge dall'altra. Il regista azzurro soffre ancora per l'infortunio subito in semifinale; l'attaccante tedesco ha problemi muscolari, ma vuole esserci lo stesso, tanto più che contro la Francia il suo ingresso è stato provvidenziale. Le decisioni dei due ct sono opposte: fuori Antognoni, dentro Rummenigge. Per sostituire il suo uomo, Bearzot rimescola parzialmente le carte: ignora Dossena, il sostituto naturale, e Marini, altro centrocampista, facendo invece avanzare Cabrini. In difesa inserisce di nuovo Bergomi. Non solo: al giovanissimo difensore Bearzot assegna il controllo di Rummenigge, l'uomo di maggior spicco, che con cinque reti contende a Rossi il titolo di capocannoniere. Alla vigilia i tedeschi sono sicuri di farcela. Ma il giorno della partita, uscendo dall'albergo, ricevono subito un auspicio infausto: il percorso che porta allo stadio è quasi interamente invaso da striscioni e bandiere italiane. Certo, non basta questo a piegare una squadra zeppa di veterani. A parte capitan Breitner, già punto di forza della Germania Ovest campione nel '74, c'è gente come Stielike, "cattivo" per eccellenza, o come il portiere Schumacher, che in semifinale ha deturpato l'arco dentario a Battiston senza battere ciglio. La preponderanza del tifo italiano è riscontrabile anche all'interno del monumentale Bernabeu. Ma una partita si gioca sul campo, e sul campo le cose per l'Italia stentano a mettersi bene, tanto più che dopo sette minuti Graziani, dolorante, deve lasciare il campo. Lo sostituisce Altobelli, così com'era accaduto contro la Polonia. Il duello Bergomi-Rummenigge pende subito dalla parte dell'italiano, anche perché Kalle mostra tutti i suoi acciacchi. Intanto, nei pressi dei due, aleggia un ritornello costante: «Calmo, zio, calmo». Sono Zoff e Scirea che incoraggiano il giovane compagno di reparto. Si lotta su ogni pallone, senza troppo costrutto. Dopo poco più di venti minuti, la mole del decatleta Briegel crolla sul peso leggero Conti: rigore. Va Cabrini. Davanti a lui un glaciale Schumacher. Breve rincorsa, un sinistro scomposto e arrotato all'eccesso, che termina a lato. Cabrini rimane in trance, mentre il primo tempo va a finire senza altri scossoni. Negli spogliatoi i compagni scuotono Cabrini e si preparano alla stretta finale senza più pensare all'occasione del rigore. Tutt'altra aria alberga fra gli avversari, un po' sorpresi dalla solidità morale degli azzurri: «Di solito nell'intervallo discutevamo - ricorderà poi Rummenigge - ognuno dava consigli, suggerimenti. Quella sera invece non fiatava nessuno. Un silenzio quasi irreale, pareva di essere sotto di tre o quattro gol, invece eravamo sullo 0-0, potevamo ancora giocarci il titolo. Niente. Solo le parole di Derwall, ma nessuno di noi aprì bocca». Le paure si materializzano dopo undici minuti del secondo tempo. Gentile mette in area un pallone, Cabrini va per colpirlo, ma si sente travolgere da una furia: è Rossi, che con un mezzo tuffo incorna e mette dentro: 1-0, ancora per merito di Pablito, fin lì annullato da Karl Heinz Forster. Ora la Germania attacca e scopre il fianco. Passa solo una decina di minuti, prima che Scirea, autore dell'ennesima magnifica prova, scenda palla al piede. Il libero azzurro, nei pressi dell'area avversaria, prima scambia con Bergomi. poi pesca al limite Tardelli. Questi ha un controllo impreciso, poi, prima che la palla gli sfugga, l'arpiona con un sinistro micidiale, che batte sul palo e lascia di sasso Schumacher. L'incontenibile, commovente incontrollata esplosione di gioia del giocatore diventerà il simbolo del mondiale. il resto è apoteosi azzurra: Conti galoppa sulla destra e taglia basso per Altobelli. Controllo a eludere il portiere e palla per la terza volta nel sacco. Esulta anche Pertini, che salta in piedi e fa di no col dito: «Non ci prendono più». Il gol della bandiera di Breitner arriva solo a sette minuti dalla fine, ma sono sette minuti di sofferenza per il pubblico italiano, che teme una delle rimonte impossibili di cui è piena la storia della Germania. Il triplice fischio del brasiliano Coelho è quindi una liberazione. Campioni del mondo! Zoff solleva la Coppa in un gesto che dodici anni prima, sull'erba dello stadio Azteca, ha visto fare a Carlos Alberto, capitano del magico Brasile di Pelè. Quel giorno era in panchina. I suoi compagni di allora sono da anni allenatori, dirigenti o chissà che. Dino invece, a quarantanni anni vive la massima soddisfazione della carriera .I leoni in gabbia di Vigo sono ora sul tetto del calcio. Hanno cominciato a vincere quasi per rabbiosa ripicca, poi hanno abbattuto ogni ostacolo, a dispetto di un cammino difficile. Tornano in Italia, a Roma, accolti da una folla in festa. Con loro viaggia anche Pertini, che durante il volo, in coppia con Zoff, dà vita a una memorabile sfida a scopone contro Bearzot e Causio. Con la vittoria spagnola il calcio italiano cancella dopo due anni la depressione indotta dallo scandalo scommesse. Le vicende del pallone attireranno come mai in passato il pubblico femminile, allargheranno il loro già robusto spazio sui giornali e invaderanno gli schermi televisivi, fino a toccare livelli esagerati. La banda Bearzot perderà lentamente i pezzi fino al fallimento dei mondiali messicani del 1986. Il suo ciclo, iniziato con la grande avventura argentina del '78, è in effetti terminato proprio nella magica notte del Bernabeu...
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