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La Nazionale di Vittorio Pozzo

Vittorio Pozzo li ha cercati e stanati uno per uno. Ha creato un gruppo. E ha vinto due mondiali: 1934 e 1938. In quel periodo due sono le grandi scuole: in Sudamerica è già aspra la rivalità tra il "futbol bailado" dei brasiliani e il calcio più razionale di argentini e uruguayani, questi ultimi primi vincitori del torneo mondiale. In Italia i campioni uscenti però non vengono, per rivalsa nei confronti di tutte quelle nazioni che avevano rifiutato di affrontare l'onerosa trasferta del '30. L'Argentina invece, temendo che i suoi campioni, attratti dalle società italiane, non sarebbero più tornati, sceglie di inviare una squadra piena di dilettanti. In Europa, mentre l'Inghilterra si gode il suo isolazionismo, è la scuola danubiana a "tenere le briglie", attraverso Ungheria e Cecoslovacchia, interpreti di un calcio lento, ragionato, e l'Austria, che ha in "Cartavelina" Sindelar uno dei primi veri fuoriclasse, capace in attacco di serpentine e invenzioni impensabili.E' un lavoro lento, una ricerca certosina quella che Pozzo affronta. Il commissario unico della nazionale ha nella mente un mosaico, e va alla ricerca dei singoli tasselli senza farsi spaventare dalle difficoltà né farsi intenerire dal sentimentalismo. Fa così anche con Calligaris, subito dopo la sconfitta di Torino con l'Austria in amichevole premondiale (2-4). Tanti anni dopo il ct rivelerà con quale dolore fu accolta da Calligaris la notizia della sua esclusione, e quale pena lui provò nel dovergliela comunicare senza però farla trasparire. Il suo sogno di toccare le sessanta presenze in azzurro viene sepolto dalle tre reti di Zischek. Pozzo gli riserva l'onore di portare la bandiera italiana. Il tecnico d'altronde ci teneva a portare ai mondiali la difesa juventina, quel trio Combi-Rosetta-Calligaris che per una decina d'anni aveva "presidiato il fortino azzurro".L' Italia accede al mondiale battendo per 4-0 i pellegrini greci. La nazionale però non va, e desta più di una preoccupazione. Pozzo l'ha imbottita di gente dal temperamento garantito, ma senza grande tecnica. Con la stampa, i rapporti sono già tesi, e s'inaspriscono quando Pozzo commette l'errore di inserire settanta nomi tra gli azzurrabili, suscitando proteste per la progressiva, lenta e penosa decimazione. Lunghissimo è il ritiro, prima all'Alpino, sopra Stresa, per disintossicare i giocatori dalle fatiche del campionato, poi a Roveta, presso Firenze, dove per un mese Pozzo li sottopone a una vera tortura mentale. Devono assimilare il suo credo tecnico, capire come vuole che venga interpretato il suo sistema di gioco, il "metodo all'italiana". Pozzo si fa anche odiare per la sua pressione sui giocatori: è il suo modo per caricarli. A un certo punto deve però lasciare mano libera: Meazza e Ferraris, tanto diversi nelle caratteristiche tecniche e anche nel carattere quanto legatissimi nella loro amicizia, gli chiedono con cortese fermezza mezza giornata libera, per dare libero sfogo alla loro voglia di libertà attraverso una piccola avventura galante. Portiere titolare è l'interista Carlo Ceresoli, che in allenamento, opponendo un braccio al potente tiro di Arcari, subisce un'incrinatura che lo esclude dai mondiali. Pozzo ci pensa sopra, poi torna ad incamminarsi, per andare a convincere Giampiero Combi, che dopo la delusione di Torino già si era dedicato al suo bar e aveva appeso gli scarpini al classico chiodo. Pozzo fa molte pressioni, e alla fine lo convince. Pozzo vuole una squadra agile, ben coperta dietro e capace di fiondarsi subito a rete, per controbattere le scuole danubiana e sudamericana, superiori dal punto di vista stilistico. Tre sono i punti fondamentali: difesa rigida, mediana elastica e molto mobile, punte veloci. Nell'undici titolare Combi è il portiere capace di parare tutto il parabile senza eccessivi colpi a effetto; Monti, Ferraris IV e Bertolini sono l'invalicabile muro di copertura; Allemandi è il progenitore dell'attuale terzino d'attacco; Ferrari e Meazza si spartiscono gli oneri della regia e del portamento della palla. In attacco Schiavio è l'uomo d'area, Orsi e Guaita, con stili diversi, le ali guizzanti. Una squadra che ha in Meazza il fuoriclasse, il genio capace di cambiare la partita secondo i propri estri, ma che viene completata grazie a due giocatori che avevano fatto parte dell'Argentina argento alle Olimpiadi '28. Se Orsi è l'elemento effervescente dell'attacco, Monti è la colonna portante di tutta la squadra. Viene dal San Lorenzo de Almagro, che lo aveva scaricato perché ormai bolso e segnato dai colpi: d'altra parte era sempre stato un vero gladiatore in campo. Monti aveva aperto una trattoria a Tigre, quartiere residenziale di Buenos Aires. Fu Cesarini a chiamarlo in Italia. Quando arriva a Torino, i dirigenti juventini, che pure l'avevano ingaggiato per pochi soldi, vogliono rimandarlo indietro, visto il suo penoso stato fisico. In poche settimane Monti smaltisce una dozzina di chili con sforzi inauditi. In campo è una furia, capace di lanci lunghissimi e precisi, assolutamente insuperabile in difesa. Con Schiavio in campionato è protagonista di duelli acerrimi, frutto di una rivalità nata durante una tournée del Bologna in Argentina. Pozzo, per rappacificarli, li mette insieme in camera: alla fine nasce una reciproca stima. La squadra è quasi pronta, ma ormai è tempo di cominciare: se qualcosa non va, bisogna cambiare in corsa. Si inizia con gli Stati Uniti, e il 7-1 non cancella la prestazione poco convincente della squadra azzurra. Pozzo opera di bisturi: esce di squadra il secondo componente del trio difensivo bianconero. Rosetta chiude a 52 la sua serie azzurra. Gli americani sono un buon antipasto prima del confronto di Firenze con le furie rosse spagnole. Sarà una vera battaglia.Pozzo, memore del 2-3 di quattro anni prima a Bologna, teme la squadra iberica, e sa che la sua difesa è una rocca difficile da scalare, soprattutto per quel mostro di Zamora al centro dei pali. La Spagna non si smentisce, e alla mezz'ora passa in vantaggio grazie a Regueiro. Il pubblico fiorentino è pietrificato. Per la prima volta la squadra italiana deve tirar fuori le unghie: Ferrari pareggia prima che scada il primo tempo. Gli spagnoli protestano per una carica al portiere, ma l'arbitro si guarda bene dall'intervenire. Unico a rimanere calmo è proprio Zamora: «Cose del genere possono capitare». Nella ripresa volano colpi proibiti, e sono quasi sempre gli spagnoli a farne le spese. Neanche i supplementari servono a smuovere il risultato. Si rigiocherà il giorno dopo: ma chi andrà in campo? Negli spogliatoi la processione dei giocatori è simile a quella dei reduci dal fronte: molti si accasciano sulle panche distrutti dalla fatica e dai colpi subiti. Pozzo guarda i suoi, tra cui Meazza, ancora intronato per una botta alla testa, poi erompe: «Chi se la sente di giocare domani?». Piano piano si alzano Monzeglio e Allemandi, Guaita e lo stesso Meazza, anche il roccioso Monti. Le condizioni degli spagnoli sono molto peggiori: mancherà Zamora, che dallo scontro con Meazza è uscito fisicamente sconfitto. Senza il numero uno la Spagna è un'altra cosa. Bastano dodici minuti e l'Italia va in vantaggio: Meazza si appoggia sulle spalle di Guaita e mette dentro. Il suo marcatore Quincoces sviene, gli altri assistono impotenti e anche un poco disgustati all'epilogo di 210 minuti di battaglia non sempre ad armi pari. A fine partita Borel II, che ha sostituito l'infortunato Schiavio, accenna a un po' di rimorso per le botte che gli spagnoli hanno preso, ma viene zittito dagli anziani: «Sta zitto, bocia. Bisogna vincere, no?». L'arbitro dell'incontro, il signor Mercet, verrà in seguito sospeso dalla Federcalcio svizzera per essere stato troppo accondiscendente verso i padroni di casa. In semifinale, ad attendere gli stanchi azzurri, c'è la fortissima Austria. Con l'Italia i punti in comune sono molti: anche Meisl ha costruito il Wunderteam sulla base delle proprie idee, pedina per pedina. Si gioca a San Siro, il 3 giugno, davanti a 45 mila spettatori. Dopo tiri di assaggio da ambo le parti, al 19' arriva l'episodio decisivo: Orsi è pescato in fuorigioco: batte la punizione il terzino austriaco Sesta, ma Monti intercetta, passa a Ferrari il quale fa ripartire Orsi, questa volta in posizione regolare. Questi fa scorrere la palla a Schiavio ingannando mezza difesa austriaca, così il nostro centravanti può battere a rete. Il portiere Platzer è pronto a respingere, ma Meazza guizza verso di lui, tocca la palla per poi franargli addosso e finire in rete dopo averlo travolto. Così Guaita approfitta fulmineo della situazione e scaraventa a bersaglio. I giocatori attorniano l'arbitro svedese Eklind, ma il tocco di Meazza prima di franare addosso a Platzer è stato evidente. San Siro diventa una bolgia. Gli austriaci non digeriranno facilmente quella sconfitta, ultimo capitolo del glorioso Wunderteam, e tireranno fuori anche storie sordide, come quella che voleva Eklind e signora ospiti costosissimi della Federcalcio italiana in uno splendido hotel di Capri. Toccherà comunque allo stesso scandinavo dirigere la finale, Italia-Cecoslo­vacchia. Tra le squadre danubiane la Cecoslovacchia è la più ostica per l'Italia di Pozzo, perché ha caratteristiche molto simili, e la nostra nazionale non è abituata ad affrontare formazioni dal gioco speculare. Sono proprio gli avversari ad andare in vantaggio con una rete di Puc dopo 25 minuti. Gli azzurri sono frastornati, non riescono a raccapezzarsi, mentre i cechi dominano. Al 71' Svoboda, che era stato toccato duro all'inizio da Monti, colpisce un palo. Mancano venti minuti, le forze scemano come le speranze: Pozzo in cuor suo sa che in quei minuti tutto ciò per cui ha lavorato è in gioco: avrà insegnato loro a lottare fino all'ultimo minuto, a mantenere viva la speranza in fondo al cuore? Sono quelle le prime risorse di uno sportivo, se lo hanno capito possono ancora farcela. Orsi, 34 anni, argentino. Lo davano per finito, ogni tanto si estranea dalla partita, ma nella sua terra ha imparato a dare libero sfogo alla fantasia. Tocca a lui inventare qualcosa d'imprevisto dalle fredde e logiche menti cecoslovacche. E Orsi lo fa, con un'incursione personale conclusa con un imparabile destro. Si va ai supplementari: in tribuna il Duce non lascia trasparire la minima emozione, gli incoraggiamenti di Jules Rimet al suo fianco non accendono il suo interesse. In casa italiana la stanchezza impone a Pozzo una soluzione geniale: il tecnico vede Schiavio stanco, e opera il suo spostamento sulla fascia al posto di Guaita, che passa al centro. Schiavio così inizia a operare sui cross dalla destra, e da uno di questi scaturisce il gol decisivo. Guaita gli lancia un assist che di destro Schiavio mette dentro. E' l'ultima sua uscita in nazionale, l'ultimo suo gol. Il più bello. Dopo la rete Schiavio sviene. La realtà si confonde con il sogno. L’Italia è campione del mondo! Il successo finanziario dei mondiali è superiore a ogni aspettativa: l'attivo è di un milione 440 mila lire. Un successo che spaventa i successori: solo dopo molte insistenze Jules Rimet riesce a convincere i suoi connazionali a sostenere l'organizzazione della terza edizione. C'è da difendere un titolo mondiale, ma per Pozzo è pressoché impossibile tenere in vita quella squadra. Tanto per fare un esempio, gli oriundi come Guaita e Orsi se ne tornano nelle loro patrie d'origine, avendo sentore di possibile richiamo militare per la guerra d'Africa... Pozzo deve ricominciare da capo: la costruzione della squadra per il '38 comincia da lontano. Nel '35 Pozzo trova nel triestino Colaussi il sostituto di Orsi: ha meno stile ma più spirito agonistico, tanto che in Francia scenderà in campo anche con una caviglia grossa come un melone. Al centro dell'attacco Pozzo deve turare la falla apertasi con il ritiro di Schiavio: intanto si mette in luce in campionato un giovane piemontese di nome Silvio Piola, ma il commissario unico è dubbioso sul suo impiego, perché lo ritiene poco capace tecnicamente per uniformarsi ai suoi dettami tattici. C'è nei suoi confronti avversione anche da parte di altri giocatori, i cosiddetti "anziani". Pozzo arriva ai mondiali del '38 con una squadra sensibilmente più "povera" dal punto di vista tecnico, ma ha in serbo un'arma in più rispetto a quattro anni prima: se non si può vincere per spunti individuali, bisogna fare di questi undici un sol uomo. Questa volta vincerà una squadra nel vero senso della parola: «La nazionale forgiata da Vittorio Pozzo costituiva davvero una grande famiglia - ha raccontato un giorno lo stesso Piola, guadagnatosi a suon di gol la stima e l'affetto dei suoi compagni di nazionale - tale da poter garantire sul campo qualcosa di più di qualsiasi altra squadra. Ecco, posso testimoniare di una cosa: la squadra azzurra di quei tempi non cedeva in fatto di compattezza morale e direi che il successo finale nella competizione mondiale di Francia abbia tratto origine da un assoluto convincimento nostro, quello di poter affrontare qualsiasi rivale senza paura». L'esordio azzurro è con la Norvegia, squadra già affrontata e battuta alle vittoriose Olimpiadi del '36 a Berlino. All'inizio dell'incontro gli azzurri salutano romanamente la folla, beccandosi una salve di fischi e l'inimicizia del pubblico: «I nostri giocatori non si sognano nemmeno di fare della politica - è la difesa di Pozzo - ma il saluto alla bandiera è un momento ufficiale, una specie di cerimonia ed essi la devono eseguire. In proposito io ho le mie idee, ma conosco il mio dovere». Tra i giocatori italiani e il pubblico si instaura una sorta di sfida: Meazza e compagni calano il braccio solo quando il silenzio è già calato sullo stadio.Tra Italia e Norvegia teoricamente non dovrebbe esserci partita, invece gli scandinavi tengono in forte soggezione i campioni del mondo. Il pubblico è tutto per i norvegesi, che a sette minuti dalla fine della partita impattano con Brustad la rete di Ferraris II dopo appena due minuti. Il pubblico è tutto per gli scandinavi, che sentono a portata di mano la grande impresa: Brynhildsen tira a colpo sicuro, ma Olivieri arriva a deviare sotto il "sette".  E' un miracolo vero e proprio, che cavallerescamente il centravanti avversario dimostra di apprezzare, andando a stringere la mano al prodigioso portiere azzurro. Nei supplementari la rete di Piola scaccia l'incubo della prematura eliminazione. Pozzo è furioso, negli spogliatoi i suoi toni duri fanno tremare le mura. Meazza si fa portavoce della squadra, la brutta figura ha una ragione ben precisa: «Siamo in ritiro da troppo tempo, non abbiamo svaghi, pensiamo solo alla partita. C'è troppa tensione. Ci lasci liberi almeno per qualche ora, per girare la città». Pozzo capisce che troppa severità può essere un errore: permesso accordato.«Ricordo che dopo la gara con la Norvegia - racconta Piola - Vittorio Pozzo sembrava parecchio inquieto per certe critiche che gli erano state mosse dai principali giornali dell'epoca. Devo dire che al seguito della squadra azzurra c'erano forse cinque giornalisti, non molti di più, i quali, nel complesso, rispettavano il lavoro del nostro commissario. Ma quella volta, forse, essi uscirono dal seminato e furono eccessivamente severi. Fatto sta che con quarantaquattro anni d'anticipo, il clan azzurro osservò un rigoroso silenzio stampa nel rapporto con i cronisti. Pozzo ebbe a dire che le critiche - se fossero giunte ai nostri orecchi o ai nostri occhi dato che non concedevamo interviste e non leggevamo giornali - avrebbero potuto influire negativamente sul nostro rendimento. Insomma tanto fece che venimmo "isolati" nel nostro ritiro con qualche agente della polizia francese che stazionava davanti all'albergo di Saint Germain en Laye dove ci trovavamo, in modo da tenere lontani i curiosi e le persone sgradite, tra cui i giornalisti».Sarà stato per quelle ore di svago, o per l'ostracismo alla stampa, ma la squadra che scende in campo per il turno successivo, contro i padroni di casa francesi, ha ben altro piglio. Pozzo rafforza la difesa, sostituendo Monzeglio con Foni. Per il bolognese è l'ultima apparizione in azzurro: Ferrari e Meazza rimangono gli unici reduci della formazione mondiale del '34. Sulla fascia destra Biavati prende il posto di Pasinati, mentre Colaussi torna a sinistra al posto di Ferraris II. Si vince 3-1 con rete iniziale di Colaussi e doppietta del solito Piola, ma il passivo potrebbe obiettivamente essere anche più pesante. Lo sanno anche il pubblico, che non lesina applausi alla prestazione degli odiati cugini italiani, e gli avversari, che si stringono intorno agli esultanti azzurri. Rispetto alla partita con la Norvegia, Ferrari e Meazza hanno ripreso i ruoli che avevano nel '34, ma fondamentale è la verticale Foni-Serantoni-Biavati sulla destra, capace di far piovere una gran quantità di cross per Silvio Piola nel match contro i francesci, sconfitti per 3-1. In semifinale ci toccano i brasiliani, e Pozzo sa che quella sarà una partita molto delicata. E' anche per sondare gli umori in casa sudamericana che Pozzo si reca nel loro ritiro, a La Ciotat. Combi, che nel frattempo funge da suo collaboratore, gli ha detto infatti che i brasiliani hanno già prenotato l'unico aereo disponibile per Parigi, dove si giocherà la finale. L'arrivo di Pozzo getta scompiglio nella delegazione brasiliana: a riceverlo si presenta il dirigente accompagnatore Pimenta.- Mi spiace, signor Pozzo, ma l'aereo è già stato prenotato da noi.- Va bene, ma eventualmente esso potrà venire passato a chi vincerà la semifinale.- Dolenti, ma a Parigi ci dobbiamo andare noi.- Ma se perdete, dovrete allora cambiare rotta e andare a Bordeaux.- Dolenti, ma questo non succederà.- Perché?- Perché a Marsiglia vinceremo noi.- Già stabilito?-Già stabilito. Al limite possiamo offrirle un posto sul nostro aereo se vuole venire a vedere la nostra vittoria mondiale.Pozzo torna indietro salutando con molta freddezza e senza rispondere all'ultima provocatoria proposta. Riferisce la cosa agli azzurri enfatizzandola al massimo, in modo che essi si carichino psicologicamente prima della partita. I brasiliani sono talmente sicuri di passare il turno che tengono a riposo il loro asso Leonidas per preservarlo in vista della finalissima. Protagonista della partita è Meazza, che il pubblico soprannomina "Peintre", pittore. L'Italia vince 2-0, con reti di Colaussi e Meazza, che trasforma un rigore in maniera quantomeno originale. Mentre sta correndo verso la palla per tirare, all'azzurro si rompe l'elastico dei pantaloncini. Il campione dell'Ambrosiana-Inter, invece di fermarsi, stampa la mano destra sul fianco per tenerli su, e sigla il 2-0. Dalla panchina, avendo visto i suoi strani movimenti, gli chiedono spiegazione: «Volevo approfittare della rabbia del portiere. Sapevo che non era concentrato, se mi fermavo si calmava e poi chi gli segnava più?». Pozzo preferisce comunque non ricordare agli affranti brasiliani le parole di qualche giorno prima: a Parigi si va in treno, e pazienza se sarà un viaggio penoso. A proposito della panchina, c'è un piccolo aneddoto da raccontare: a quei tempi non era permesso all'allenatore dare ordini ai giocatori in campo. Pozzo sa quindi di essere costantemente tenuto sotto stretto controllo, allora chiama vicino a sé l'allenatore in seconda Luigi Burlando, col quale inizia a parlare in stretto dialetto piemontese. I controllori non capiscono cosa si stiano dicendo, così Burlando, più libero, può tranquillamente riferire ai giocatori. In finale gli azzurri affrontano l'Ungheria, già battuta l'anno prima. Rispetto alla squadra di allora i magiari hanno apportato qualche variazione, inserendo il giovane e talentuoso interno Szengeller, futuro romanista, e trovando maggiore spazio per le incursioni della guizzante ala Titkos, unico uomo capace di cambiare la marcia di un modulo di gioco tecnicamente perfetto ma perpetuamente lento. La stella della squadra è però Gyorgy Sarosi, capitano della nazionale. E' una sfida al cardiopalmo, piena di reti, ma che gli azzurri tengono sempre saldamente nelle proprie mani, proprio perché, in quei giorni, hanno imparato cosa significa essere una squadra, un corpo unico. Una forza d'animo che emerge soprattutto dopo l'inter­vallo, quando l'Ungheria spara le sue migliori cartucce per ribaltare l'1-3 dei primi quarantacinque minuti. E' Sarosi, vero fuoriclasse, che segna il 2-3 e chiama la riscossa. Gli azzurri non si perdono d'animo, continuano a macinare gioco, e chiudono sul 4-2, dimostrando che quella vittoria mondiale di quattro anni prima non era stata la tipica montatura fatta in casa. Vittorio Pozzo e i suoi ragazzi si guadagnano un posto fisso nella storia del calcio mondiale, che nessuno potrà più togliere loro.

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