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Ogni benedetta Domenica

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Alla Domenica si cominciava a pensare fin dal Lunedì e nel caso di sconfitta dalla Domenica stessa. La settimana veniva vissuta nei bar o nei club con una tale intensità da non poter essere descritta a parole. La mattina prima della partita, già alle 10 intorno allo stadio era tutto un tripudio di bandiere, un fluire continuo di tifosi con i famosi cuscini (a proposito, ma che fine hanno fatto?). Nei bar volavano le birre e, specialmente nelle giornate più fredde, il mitico “Caffè sport Borghetti”. Ma non si sostava molto fuori, perché trovare un posto in curva già a mezzogiorno diventava una vera e propria impresa. Quei cori forti e potenti che rimbalzavano in curva nord, li potevi sentire da fuori e, come trainato da una forza inarrestabile, dovevi entrare, dovevi essere partecipe e anche se il campo era ancora vuoto e la tifoseria avversaria non era arrivata, cantare era un rito irrinunciabile. Entrare, però, significava fare lunghe file, ma non per i tornelli o altre diavolerie ministeriali, ma semplicemente perché eravamo tantissimi. Quando la squadra avversaria provava a mettere la testa fuori dal tunnel degli spogliatoi, ogni settore li bombardava di fischi, cori tanto che velocemente facevano marcia indietro e tornavano al coperto. Era Domenica e in curva suonavano le trombe, si distribuivano i fogli di giornale ritagliati che venivano lanciati alla lettura delle formazioni, si preparavano i fumogeni e i più “fortunati” potevano scaldare i muscoli del braccio cominciando a ritmare con i tamburi. Il “Comunale” era sempre stracolmo, si fosse giocato per non retrocedere, oppure, quelle poche volte che succedeva, per altri e più importanti obbiettivi. Prima della partita in curva si mangiava pure: era il momento dei panini con le panelle o con la meusa(milza), mentre si divideva il bere con quello vicino anche se non lo conoscevi. Fuori dal centro della curva c'erano i maniaci delle radio, che ti aggiornavano sui risultati dagli altri campi, e trovavi sempre qualcuno alla fine del primo tempo o della partita in cerca dei parziali o dei finali per consultare la schedina. Il bello è che nella concitazione del momento, nell'essere preda di quello che accadeva in campo, non esistevano due soli “maniaci di tutto il calcio minuto per minuto”, capaci di darti lo stesso risultato per la stessa partita. Nel giro di un minuto potevi passare dall'aver fatto tredici, dodici a miseri cinque, quattro, con conseguente depressione e imprecazione. Questi gesti univano, cementavano legami che, una volta nati in quella curva, erano destinati a durare a lungo, se non per sempre. Era Domenica e giocava il Palermo e così, indipendentemente dalla squadra, da chi scendeva in campo, esserci e tifare per quella maglia rosanero era espressione di un senso di appartenenza, era la prova di una città che si divideva su tutto e si riuniva magicamente quando scendeva in campo i picciotti del Palermo Era l'essere tutti insieme a sostenere una squadra che soffriva e ti faceva soffrire, ma chi c’era sapeva che lui, che noi, che tu, che quelle migliaia di persone erano il calcio, erano il Palermo, erano la città di Palermo, e che senza di loro il calcio non sarebbe esistito. Poi, finita la partita, rimasti senza un filo di voce, via di corsa a casa – meglio se c’era un amico che abitava vicino allo Stadio che così si faceva prima – per vedere Novantesimo minuto, a godere le immagini se avevamo vinto, a recriminare se avevamo pareggiato e, se per caso avevamo perso, ad andare col pensiero subito alla Domenica successiva. Perché era Domenica, e anche se questa era finita, fra sette giorni ce ne sarebbe stata un’altra. Da domani di nuovo al bar o al club: cominciava il conto alla rovescia!

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